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È incostituzionale privare i richiedenti asilo del diritto all’iscrizione anagrafica (C.Cost. 186/2020)

I Tribunali di Milano, Ancona e Salerno, dopo essere stati aditi da stranieri richiedenti asilo cui era stata negata l’iscrizione anagrafica nel luogo di dimora abituale (a norma del primo Decreto Sicurezza, DL 113/2018), hanno sollevato dubbi di costituzionalità della norma di fronte alla Corte.

Il nuovo articolo 4, comma 1-bis, del DLgs 142/2015 introdotto dal Decreto Sicurezza così infatti recita:
“1. Al richiedente (asilo) è rilasciato un permesso di soggiorno per richiesta asilo valido nel territorio nazionale per sei mesi, rinnovabile fino alla decisione della domanda (..). Il permesso di soggiorno costituisce documento di riconoscimento (..)
1-bis. Il permesso di soggiorno di cui al comma 1 non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica (..)”.
E all’articolo 5:
“2. Per il richiedente trattenuto o accolto nei centri o strutture, l’indirizzo del centro costituisce il luogo di domicilio (..)
3. L’accesso ai servizi previsti dal presente decreto e a quelli comunque erogati sul territorio ai sensi delle norme vigenti è assicurato nel luogo di domicilio“.

Il diritto all’iscrizione anagrafica è normalmente esercitato attraverso una dichiarazione dell’interessato all’ufficiale di stato civile, con cui si dà atto della propria permanenza in un certo luogo e dell’intenzione di abitarvi stabilmente.

La decisione del legislatore di escludere i richiedenti asilo dall’iscrizione anagrafica si giustificava per la precarietà del permesso per richiesta asilo (valido fino al giudizio sul caso da parte della Commissione Territoriale, ricorsi esclusi) e rispondeva inoltre alla necessità di non sovraccaricare di lavoro le strutture comunali prima che la condizione giuridica del richiedente fosse definita in maniera chiara.

 

La negazione di una pari dignità sociale

Secondo la Corte Costituzionale, la norma in esame determina un’irragionevole disparità di trattamento tra stranieri richiedenti asilo e altre categorie di stranieri legalmente soggiornanti sul territorio nazionale, oltre che con i cittadini italiani.

Negando l’iscrizione anagrafica (e quindi il riconoscimento giuridico della loro condizione di residenti) a coloro che hanno la dimora abituale nel territorio italiano (come, appunto, i richiedenti asilo) la norma riserva un trattamento differenziato e indubbiamente peggiorativo a tale categoria di stranieri in assenza di una ragionevole giustificazione.

La registrazione anagrafica è la semplice conseguenza del fatto oggettivo della legittima dimora abituale in un determinato luogo e la circostanza che il richiedente sia un cittadino, uno straniero o uno straniero richiedente asilo, comunque regolarmente insediato, non può influire sul diritto ad essa collegato.

Al legislatore non è infatti consentito introdurre regimi differenziati circa il trattamento da riservare ai singoli consociati tanto più se si è in presenza di una “causa” normativa palesemente irrazionale o, peggio, arbitraria.

La norma censurata incide quindi irragionevolmente sulla «pari dignità sociale», riconosciuta alla persona in quanto tale dall’art. 3 della Costituzione, a prescindere dal suo status e dal grado di stabilità della sua permanenza regolare nel territorio italiano.

Se è vero che l’art. 3 si riferisce espressamente ai soli cittadini italiani, è anche certo che il principio di eguaglianza vale pure per lo straniero quando si tratta di rispettarne i diritti fondamentali, chiosa la Corte.

Il diritto all’iscrizione presso l’anagrafe nazionale dei soggetti residenti sarebbe, infatti, «direttamente collegato alla dignità personale e sociale dell’individuo, alla sua capacità di identificazione, appartenenza e, in senso più ampio, integrazione con la comunità locale, che a loro volta costituiscono passaggi indispensabili per la concretizzazione del progetto fondante la nostra Costituzione, ossia assicurare all’individuo – legalmente presente nel territorio italiano –una vita libera e degna”.

 

Gli altri effetti pregiudizievoli

Il diniego di iscrizione anagrafica presenta inoltre effetti pregiudizievoli per i richiedenti asilo quanto all’accesso ai servizi “rispetto ai quali l’iscrizione all’anagrafe è strumentale” quali ad esempio l’assistenza sanitaria sotto regime di SSN, l’iscrizione a scuola, l’apertura di contratti per forniture elettriche o di gas naturale, l’apertura di conti bancari.

La previsione della fornitura dei servizi nel luogo di domicilio anziché in quello di residenza, infatti, rende ingiustificatamente più difficile l’accesso ai servizi stessi, non fosse altro che per gli ostacoli di ordine pratico e burocratico connessi alle modalità di richiesta dell’erogazione – che fanno quasi sempre riferimento alla residenza e alla sua certificazione a mezzo dell’anagrafe – e per la stessa difficoltà di individuare il luogo di domicilio, a fronte della certezza offerta invece dal dato formale della residenza anagrafica.

Inoltre, la mancata iscrizione all’anagrafe comporterebbe anche “un immediato […] nocumento in capo al ricorrente” poiché si escluderebbe a priori il periodo trascorso come richiedente asilo (perdendolo, in definitiva) dal computo del tempo necessario per l’esercizio dei diritti collegati alla durata della residenza, tra cui quelli relativi all’acquisizione della cittadinanza, all’accesso all’edilizia popolare e al cosiddetto reddito di cittadinanza.

 

L’indebolimento dei poteri di controllo e monitoraggio degli stranieri

La Corte Costituzionale ritiene poi che la norma in esame finisca con il limitare le capacità di controllo e monitoraggio dell’autorità pubblica sulla popolazione effettivamente residente sul territorio.

Non iscrivendo all’anagrafe un’ampia platea di soggetti come i richiedenti asilo, la norma rende problematica la loro individuazione e il loro tracciamento, e ostacola l’interesse pubblico alla completa conoscenza della popolazione residente.

Peraltro, nella stragrande maggioranza dei casi, il periodo complessivo di permanenza dei richiedenti asilo nel nostro Paese risulta essere di almeno un anno e mezzo, soprattutto a causa dei tempi di decisione sulle domande, rischiando che tali soggetti restino fuori dai radar dell’autorità pubblica per un periodo di tempo sicuramente troppo lungo.

 

Il conflitto con altre norme

Da ultimo, continua la Corte, è lo stesso art. 6, comma 7, del Dlgs 286/1998 (non abrogato) a considerare la permanenza protratta per tre mesi presso un centro di accoglienza come la condizione sufficiente per classificare come abituale la dimora dello straniero, e quindi, per ottenere il riconoscimento giuridico della residenza.

Inoltre, il medesimo articolo ribadisce come “le iscrizioni e variazioni anagrafiche dello straniero regolarmente soggiornante sono effettuate alle medesime condizioni dei cittadini italiani “ e l’art. 2, comma 2, recita “lo straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato gode dei diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano”.

 

Ne deriva l’illegittimità costituzionale dell’intero art. 13 del primo Decreto Sicurezza (DL 113/2018).

 

La sentenza della Corte Costituzionale n. 186/2020 in .pdf (scaricabile):

Corte Costituzionale - Sentenza n. 186-2020 (Anagrafe Richiedenti Asilo)

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