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Il rifiuto di ricollocare migranti. Procedura di infrazione per Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca (CJEU, 02 aprile 2020)

A settembre 2015, tenuto conto della situazione di emergenza dovuta al massiccio arrivo di migranti irregolari in Grecia e in Italia, il Consiglio aveva adottato due Decisioni che, in deroga alle regole di Dublino III, prevedevano il ricollocamento obbligatorio di 120.000 soggetti negli altri Stati dell’Unione.

I 120.000 richiedenti protezione internazionale avrebbero quindi dovuto essere ripartiti nei vari Stati dell’Unione secondo le quote indicate negli allegati alle Decisioni.

Nel mese di Dicembre 2015, la Polonia aveva indicato di essere in grado di ricollocare rapidamente nel suo territorio 100 persone, la Repubblica Ceca ne aveva indicate 50, mentre l’Ungheria non aveva mai nemmeno provveduto ad indicare un numero.

A conti fatti, la sola Repubblica Ceca ne aveva infine accettati 12, mentre Polonia e Ungheria non ne avevano accolto alcuno né avevano assunto alcun successivo impegno di ricollocamento.

 

La procedura di infrazione ai sensi degli articoli 258-259 e 260 TFUE

La procedura di infrazione per uno degli Stati Membri si attiva nel momento in cui la Commissione Europea o uno dei governi dell’Unione Europea (UE) ritenga che un paese dell’UE non abbia tenuto fede agli obblighi stabiliti dall’Unione stessa.

La procedura funziona nel modo seguente:
– la Commissione o uno Stato membro indicano che un determinato Stato membro non sta rispettando i propri obblighi;
– la Commissione invia una lettera di costituzione in mora al Paese in questione richiedendo ulteriori informazioni. Lo Stato membro invia una risposta dettagliata entro un termine preciso, in genere due mesi;
– sulla base di tale risposta, la Commissione può chiudere il caso (se la risposta fornita si rivela soddisfacente) oppure emettere un parere motivato, cioè una richiesta formale al Paese in questione di conformarsi al diritto dell’Unione e di comunicare le misure adottate entro un termine preciso, in genere due mesi;
– qualora il Paese coinvolto non si conformi al parere della Commissione entro il calendario previsto, la Commissione potrà inoltrare il caso alla Corte di Giustizia;
– la Corte -tramite le sue sentenze- può invitare un paese dell’UE che ritiene stia violando la normativa dell’UE ad adottare determinate misure;
– nel caso in cui la Commissione abbia ragione di credere che il Paese non stia agendo in conformità con la sentenza giudiziaria, potrà inoltrare nuovamente il caso alla Corte, suggerendo la sanzione che reputa opportuno imporre;
– qualora la Corte stabilisca che la sua sentenza non è ancora stata rispettata, potrà imporre sanzioni finanziarie e/o una penalità al Paese coinvolto.

 

Commissione vs Repubblica Ceca/Polonia/Ungheria

Nel caso specifico, la Commissione aveva ricordato a tutti gli Stati membri i loro obblighi di ricollocamento ai sensi delle Decisioni del Consiglio, senza alcun risultato.

Aveva poi proceduto nel 2017 ad inviare lettere di messa in mora a Repubblica Ceca, Polonia e Ungheria, ottenendo risposte insoddisfacenti, per procedere quindi all’invio di un parere motivato in cui la Commissione ribadiva anche come la Corte di Giustizia di fosse già pronunciata a fine 2017 a favore della validità delle Decisioni del Consiglio.

Tutto inutile.

I tre Paesi del blocco di Visegrad non cedono e la Commissione deve ricorrere alla Corte di Giustizia europea per far accertare ufficialmente l’esistenza dell’inadempimento, allo scopo di farlo cessare.

 

La sentenza sulle cause riunite C-715/17, C-718/17 e C-719/17 Commissione vs Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca

La Corte ha così accolto il ricorso della Commissione e dichiarato ufficialmente che i tre Stati Membri, non avendo indicato a intervalli regolari (almeno ogni tre mesi), un numero adeguato di richiedenti protezione internazionale che sarebbero stati in grado di ricollocare rapidamente nei loro territori, sono venuti meno agli obblighi ad essi incombenti in forza del diritto dell’Unione.

A nulla sono valse le tesi difensive da parte degli Stati interessati volte a giustificare l’omessa applicazione delle Decisioni del Consiglio.

Polonia e Ungheria ritengono infatti di essere state legittimate a non rispettare le Decisioni del Consiglio a causa dei rischi collegati alle attività di ricollocamento.
Tra i migranti potevano esserci estremisti e persone pericolose che potevano commettere atti violenti, perfino di natura terroristica, nei loro territori.
La procedura di ricollocamento non prevedeva inoltre di svolgere colloqui con i richiedenti protezione internazionale prima del loro trasferimento e quindi, a loro dire, non permetteva di garantire pienamente il mantenimento dell’ordine pubblico e la salvaguardia della sicurezza interna.

La Repubblica Ceca sostiene invece che la sua decisione di ignorare le Decisioni del Consiglio era giustificata dal fatto che, nella sua applicazione concreta, il meccanismo di ricollocamento si era rivelato mal funzionante e inefficace, sia a causa della mancanza di cooperazione delle autorità greche e italiane sia a cause dell’assenza, al momento dell’assunzione di impegni di ricollocamento, di richiedenti protezione internazionale destinati a essere ricollocati.

La Corte ha ritenuto che il Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (art. 72) non conferisca agli Stati membri il potere di derogare a disposizioni di diritto dell’Unione mediante il mero, generico, richiamo agli interessi connessi al mantenimento dell’ordine pubblico e alla salvaguardia della sicurezza interna, ma che imponga loro di dimostrare la effettiva necessità di avvalersi di tale deroga.

Quindi, anche se spetta agli Stati Membri stabilire le misure adeguate per garantire l’ordine pubblico nel loro territorio nonché la loro sicurezza interna ed esterna, essi non possono ignorare le norme prescritte dall’Unione a meno che non dimostrino, al termine di un esame caso per caso, che vi sono elementi concordanti, oggettivi e precisi, che consentano di sospettare che quello specifico richiedente protezione internazionale rappresenti un pericolo attuale o potenziale per l’ordine pubblico o la sicurezza nazionale dello Stato.
Cosa mai successa nel caso in questione.

Inoltre, la Corte conclude affermando che nessuno (leggasi: Repubblica Ceca) può ritenersi esentato dall’applicazione di norme dell’Unione, e sottrarsi quindi a qualsiasi obbligo di ricollocamento, sulla base di valutazioni unilaterali sulla mancanza di efficacia del sistema di ricollocamento o di un eventuale suo malfunzionamento.

 

La Sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea – Terza Sezione – n. C-715/17, C-718/17 e C-719/17 del 02 aprile 2020 in .pdf (scaricabile):

Corte di Giustizia UE - Terza Sezione - Sentenze n. C‑715-17, C‑718-17 e C‑719-17 (02apr2020)

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