Dal colpo di Stato del 2013 che rimosse il primo presidente eletto in Egitto, Mohamed Morsi, il governo del presidente al-Sisi si è contraddistinto per una feroce e sistematica repressione delle proteste dei dissidenti, degli oppositori politici, dei giornalisti indipendenti e di tutti coloro che si sono schierati a difesa dei diritti umani.
Negli ultimi anni, le forze di sicurezza egiziane hanno infatti arbitrariamente arrestato, illegittimamente detenuto e condannato decine di migliaia di persone. La tortura è stata usata in maniera sistematica così come il fermo ingiustificato di persone che avevano solo espresso critiche o manifestato pacificamente, nel più totale disprezzo dei basilari diritti umani riconosciuti a livello internazionale.
Questa repressione ha tristemente coinvolto anche centinaia di bambini sui quali è stata perpetrata ogni forma di nefandezza senza alcun riguardo per la loro fragilità: detenzioni arbitrarie, torture, rapimenti, violazioni delle regole processuali, processi condotti in maniera sommaria, condizioni di detenzione disumane.
Nel 2016, le forze di sicurezza egiziane prelevano il diciassettenne Karim Hamida Ali presso la sua abitazione.
L’accusa è quella di detenzione di esplosivi, associazione a delinquere e vandalismo, per aver semplicemente preso parte a una manifestazione durante la quale era stata danneggiata la facciata dell’Hotel Tre Piramidi a Giza.
La famiglia di Karim viene informata dei capi di imputazione dopo circa un mese, quando Karim viene finalmente condotto di fronte a un giudice.
Nel mentre, gli ufficiali della sicurezza nazionale lo torturano per estorcergli una confessione che ottengono senza difficoltà.
Durante il processo, nessuno si preoccupa di come la confessione sia stata ottenuta né verifica nel merito i fatti.
Karim viene così inizialmente condannato a morte (nonostante sia minorenne) per vedersi poi commutare la sentenza in 10 anni di reclusione.
Abdullah Boumadian viene prelevato dai militari durante la notte del 31 dicembre 2017 dalla sua camera da letto, dopo che poche settimane prima i militari avevano arrestato il padre. Entrambi avevano avuto la sfortuna di avere un membro della famiglia che si era da poco affiliato all’ISIS.
Privano Abdullah della libertà e lo torturano con percosse, scosse elettriche e waterboarding, lo sospendono al soffitto, gli estorcono una confessione ustionandolo con ferri roventi. Non gli danno cibo né gli permettono di lavarsi e di vedere la sua famiglia. Lo interrogano senza che il suo avvocato sia presente. Lo minacciano, dicendogli che se non avesse confessato, anche sua madre avrebbe fatto la stessa fine sua e di suo padre. Abdullah ha solo 12 anni.
Il sistema giudiziario egiziano lo considererà colpevole di affiliazione terroristica additandolo come un pericolo per la sicurezza nazionale, così come suo fratello.
Wesam (17 anni) viene arrestato a Dicembre 2017 e viene detenuto per più di un anno.
Le ragioni del suo arresto non sono chiare dato che al momento del fermo stava semplicemente partecipando a una manifestazione contro la decisione degli Stati Uniti di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele. Assieme a lui vengono arbitrariamente arrestati anche due ragazzi che avevano fatto il grave errore di approcciare la polizia per chiedere loro come raggiungere una destinazione vicina al luogo della manifestazione in corso.
Viene interrogato per sei ore, minacciato (“se parli ti lasceremo andare, se non parli resterai qui”), senza la possibilità di veder un avvocato. Viene continuamente interrogato anche per i giorni successivi, durante i quali gli vengono dati da mangiare solo gli avanzi dei suoi carcerieri.
La sua cella misura tre metri per tre e ospita dai 15 ai 18 detenuti, sia minorenni che adulti.
Wesam racconta che la cella era talmente sovraffollata che per dormire i detenuti avevano pianificato dei turni di sei ore.
La sua famiglia lo cerca all’ospedale, presso il presidio di polizia ma né loro né i suoi amici sono in grado di capire che fine abbia fatto per almeno tre giorni.
Verrà rilasciato nel 2019 dopo indicibili sofferenze.
Badr (16 anni) viene arrestato all’aeroporto del Cairo nel 2017 mentre si appresta a effettuare un viaggio studio all’estero.
Le autorità lo accusano di voler viaggiare in Siria per affiliarsi a un gruppo armato oppositore del governo egiziano.
Lo pongono in stato di fermo e portano il suo caso davanti al giudice solo dopo molti giorni durante i quali viene pesantemente torturato. Come avvenuto in tutti gli altri casi presentati nel rapporto, non gli è permesso di contattare un avvocato né la sua famiglia.
Finalmente, passato un mese dal suo arresto, le Forze di Sicurezza Nazionale egiziane contattano un familiare di Badr pianificando un incontro: si rivelerà però una trappola per arrestare, senza prove apparenti e sulla base di mere supposizioni, anche l’altro componente della famiglia a cui verranno contestate le medesime accuse.
Verranno rilasciati entrambi, nel 2018, dopo un anno.
Ziad (15 anni) viene arrestato mentre stava soccorrendo una persona feritasi durante una manifestazione, portandola all’ospedale del Cairo.
Lo condanneranno a 10 anni di reclusione per aver partecipato a proteste non autorizzate, violenza, affiliazione a organizzazioni terroristiche e vandalismo.
Il canovaccio è sempre lo stesso: la famiglia non riceve informazioni per tre giorni durante i quali Ziad viene picchiato, torturato con scosse elettriche e minacciato prima di essere portato davanti al giudice.
“Il suo corpo era gonfio a causa delle percosse ricevute, le sue gambe tumefatte. Aveva la febbre e si sentiva spossato ma nessun dottore lo aveva ancora visitato”.
Sconterà la detenzione in celle sovraffollate, in compagnia di detenuti di ogni genere ed età.
Yahia (17 anni) sta comprando un gelato quando tre poliziotti lo prelevano e rinchiudono in un van.
La polizia era lì per monitorare una manifestazione che si stava svolgendo in una cittadina del delta del Nilo a cui Yahia non stava partecipando e con cui -dice lui- non aveva nulla a che fare.
L’accusa è quella di vandalismo e affiliazione ad associazioni terroristiche. Per estorcerne la confessione, Yahia viene picchiato (“60 o 70 volte”) con uno sfollagente, viene ammanettato, appeso al soffitto, torturato con scosse elettriche sulla testa, sulle dita dei piedi e delle mani, sui genitali, nell’orifizio anale.
Gli sputano in bocca, lo umiliano e lo abbandonano in una cella con altri otto uomini. È inverno ma lasciano le finestre aperte.
Cinque giorni dopo lo conducono davanti al giudice, come sempre, senza la presenza di un avvocato. “Avevo sangue sui vestiti, le mie spalle erano lussate, non potevo camminare” racconterà Yahia.
Yahia passerà i successivi 30 giorni in una cella con altre 80 persone.
Verrà poi condannato definitivamente a tre anni di reclusione.
Il rapporto di Human Rights Watch “No one cared he was a child”, in .pdf (scaricabile):
Human Rights Watch - No one cared he was a child (2020)