Il caso Cappato-Dj Fabo, già oggetto di due precedenti verdetti (il primo della Corte di Assise di Milano e il secondo della Corte Costituzionale), si chiude di fronte alla stessa Corte Costituzionale con una (parziale) pronuncia di incostituzionalità dell’art. 580 del codice penale nella parte in cui punisce chi agevola l’esecuzione dell’altrui proposito suicidario.
In assenza di indicazioni da parte del Parlamento, infatti, la Corte ha optato per colmare autonomamente il vulnus di legittimità costituzionale palesatosi dopo l’esame del caso in oggetto, sia a generale tutela dei diritti dei malati e della loro dignità sia a tutela del diritto di Marco Cappato di non vedersi infliggere una sanzione penale sulla base di una norma ormai considerata incostituzionale.
La Corte ha inoltre deciso di non esprimersi tramite una pronuncia meramente ablativa della parte “incriminata” dell’articolo 580 del codice penale, stabilendo invece di subordinare la non punibilità di alcuni comportamenti di “aiuto al suicidio” al rispetto di specifiche e stringenti cautele per evitare che “qualsiasi soggetto – anche non esercente una professione sanitaria – possa lecitamente offrire, a casa propria o a domicilio, per spirito filantropico o a pagamento, assistenza al suicidio a pazienti che lo desiderino, senza alcun controllo ex ante” previsto dall’ordinamento.
L’istigazione va trattata differentemente dall’aiuto al suicidio
La Corte sposa la tesi che prevede che vengano trattate diversamente le condotte di istigazione al suicidio (ovvero quelle in grado di alterare il percorso psichico dell’aspirante suicida, interferendo sulla sua scelta libera e consapevole) da quelle di chi abbia offerto un mero aiuto al potenziale suicida già pienamente convinto del suo atto, purché la condotta dell’agente “agevolatore” si sia posta solo come strumento per la realizzazione della libera e consapevole volontà altrui
Tuttavia, tale diverso trattamento delle due fattispecie disciplinate dall’articolo 580 del codice penale è lecito solo a fronte del rispetto di precise e cogenti condizioni.
A quali condizioni?
Viene depenalizzata la condotta di chi si trovi ad agevolare l’esecuzione del proposito suicidario di un soggetto terzo solo nel caso in cui tale proposito si sia autonomamente e liberamente formato in una persona:
– pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli (ovvero priva di condizionamenti);
– affetta da una patologia irreversibile e che sia tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale;
– che reputi tale patologia irreversibile come una fonte di intollerabili sofferenze fisiche o psicologiche.
Ergo, la declaratoria di incostituzionalità della Corte attiene in modo specifico ed esclusivo all’aiuto al suicidio prestato a favore di soggetti (perfettamente in grado di intendere e di volere) che già potrebbero alternativamente lasciarsi morire mediante la rinuncia a trattamenti sanitari necessari alla loro sopravvivenza.
Vi è infatti, secondo la Corte, un’analogia tra il rifiuto al trattamento sanitario consentito dalla Legge 219/2017 (“Consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento”) e la richiesta di aiuto al suicidio.
Dato che il legislatore consente al malato di imporre a terzi di interrompere i trattamenti sanitari cui è sottoposto anche se questo porterà al suo decesso (tramite, ad esempio, il distacco o lo spegnimento di un macchinario, accompagnato dalla somministrazione di una sedazione profonda continua e di una terapia del dolore) non si vede perché l’ordinamento debba invece opporre un rifiuto assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta di un “aiuto a morire” da parte di altri soggetti, in condizioni di ancora maggiore vulnerabilità, come quelli tenuti in vita da trattamenti di sostegno vitale.
Se così non fosse, dice la Corte, saremmo di fronte a una evidente violazione del principio di eguaglianza poiché la norma censurata determinerebbe una disparità di trattamento tra chi è in grado di porre fine alla propria vita da solo, senza bisogno di aiuto esterno, e chi, invece, è fisicamente impossibilitato a farlo per la gravità delle proprie condizioni patologiche, con conseguente discriminazione a scapito proprio dei casi maggiormente meritevoli di considerazione.
Con quali modalità?
Le modalità da seguire per porre in essere il proposito suicidario sono quelle previste dagli articoli 1 e 2 della legge 219/2017.
Sulla base del principio che “nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata” la Corte prevede che l’eventuale richiesta di “aiuto al suicidio” debba avvenire solo dopo l’espressione di un consenso libero e informato da parte del malato pienamente capace di agire.
“Ogni persona capace di agire ha [infatti] il diritto di rifiutare, in tutto o in parte qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso” (articolo 1) “Ha, inoltre, il diritto di revocare in qualsiasi momento il consenso prestato, anche quando la revoca comporti l’interruzione del trattamento”
Il consenso informato deve essere acquisito nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente e deve essere documentato in forma scritta, attraverso videoregistrazioni o, per la persona con disabilità, attraverso altri specifici dispositivi che le consentano di comunicare.
Resta ferma, ovviamente, la possibilità per il paziente di modificare la propria volontà, cosa che -peraltro- nel caso dell’aiuto al suicidio, è insito nel fatto stesso che l’interessato conserva, per definizione, il dominio sull’atto finale che innesca il processo letale.
Quanto all’esigenza di coinvolgimento dell’interessato in un percorso di cure palliative, l’art. 2 della legge n. 219 del 2017 prevede che debba essere sempre garantita al paziente un’appropriata terapia del dolore nonché l’erogazione delle cure palliative previste dalla legge.
La libertà di autodeterminazione può infatti esistere solo in un contesto concreto in cui i pazienti godono di un’effettiva e adeguata assistenza sanitaria.
Accesso alle cure, strutture adeguate e risorse appropriate devono infatti essere assicurate a prescindere dalla decisione del malato: una maggiore diffusione/potenziamento della terapia del dolore e delle cure palliative non potrà eliminare del tutto le richieste di assistenza medica a morire (poiché ci sarà sempre qualcuno che vivrà la soluzione della sedazione profonda continua come un qualcosa di contrario alla propria dignità) ma potrebbe comunque ridurle, andando ad escludere quelle dettate esclusivamente da cause legate ad una sofferenza alleviabile.
La delicatezza dei diritti/valori in gioco richiede, infine, l’intervento di un organo collegiale terzo per l’avallo della richiesta di “aiuto al suicidio”: tale compito è affidato dalla Corte ai Comitati Etici territorialmente competenti.
I Comitati – quali organismi di consultazione e di riferimento per i problemi di natura etica che possano presentarsi nella normale pratica sanitaria- sono chiamati in questo caso a garantire che tutto si svolga “senza intollerabili vuoti di tutela e abusi per la vita di persone in situazioni di vulnerabilità”.
La sentenza non crea inoltre alcun obbligo in capo ai medici a soddisfare le richieste di un “aiuto a morire” da parte del malato.
Resta pertanto affidato alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o meno, a esaudirne la richiesta.
La Sentenza n. 242/2019 della Corte Costituzionale, in .pdf (scaricabile):
Corte Costituzionale - Sentenza n. 242-2019 (Cappato)