A causa delle difficoltà sperimentate nell’avere figli, una coppia italiana decide di ricorrere all’aiuto delle tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA).
Proprio nel corso della terapia, il futuro padre apprende di essere gravemente malato e, consapevole della sua fine imminente, autorizza la moglie all’utilizzo post mortem del proprio seme crioconservato al fine di progredire con la gravidanza.
La donna si sottopone a PMA in Spagna e la bambina nasce in Italia dopo il decesso del marito.
Al momento della registrazione della nascita, però, l’Ufficiale dello Stato Civile del Comune di residenza si rifiuta di trascrivere nell’atto di nascita la paternità del defunto, privando così la piccola del cognome paterno.
Per giustificare il rifiuto, l’Ufficiale dell’anagrafe si appella alle regole riportate nel codice civile: gli articoli 231 (“il marito è il padre del figlio concepito o nato durante il matrimonio”) e 232 (“si presume concepito durante il matrimonio il figlio nato quando non sono ancora trascorsi trecento giorni” dalla cessazione del vincolo matrimoniale) avrebbero infatti precluso, secondo la sua interpretazione, l’iscrizione della paternità della bambina sulla base delle sole dichiarazioni fornite dalla madre, anche se integrate dal consenso del padre alla PMA e alla fecondazione post mortem.
La figlia era infatti nata dopo trecento giorni dalla fine del vincolo matrimoniale, lasciando così cadere la presunzione del concepimento della stessa durante il matrimonio dei due coniugi e, conseguentemente, la presunzione di paternità del marito.
Il Comune si difende asserendo, inoltre, che i diritti della bambina erano stati comunque tutelati perché –di fatto- l’atto di nascita era stato formato, sebbene senza l’indicazione paterna desiderata.
I ricorrenti considerano invece il rifiuto come illegittimo perché in contrasto con le disposizioni previste dalla legge n. 40 del 2004 (articolo 8 – “i nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita hanno lo stato di figli nati nel matrimonio o di figli riconosciuti della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime “) che attribuisce automaticamente lo status di figlio nato nel matrimonio a quello nato a seguito delle tecniche di procreazione medicalmente assistita.
La questione finisce così prima in Tribunale e poi in Cassazione
Occorre infatti verificare se la disciplina della filiazione nella PMA, in ragione della peculiarità proprie di queste tecniche,configuri un sistema alternativo rispetto a quello codicistico (che regola la filiazione da procreazione naturale), o debba invece attenersi alle regole definite da quest’ultimo.
Cassazione – La bambina è stata concepita durante il matrimonio
Prima di tutto la Cassazione riconosce che la bambina è stata concepita durante il matrimonio e che, quindi, ai sensi della legge n. 40 del 2004, sia da considerarsi come “nata nel matrimonio”.
Nel caso in esame, si considera infatti “nato nel matrimonio” il bambino concepito dopo la morte del padre che abbia autorizzato l’utilizzo del proprio seme crioconservato e che abbia prestato il consenso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita prima del decesso e del conseguente scioglimento del vincolo nuziale.
Cassazione – La PMA configura un sistema alternativo rispetto al codice civile
La Cassazione rileva, poi, come il fenomeno procreativo nell’era della globalizzazione debba necessariamente fare i conti con un “innegabile dinamismo”.
Mediante l’applicazione di nuove tecniche di fecondazione medicalmente assistita, infatti, è figlio non solo chi nasce da un atto naturale di concepimento ma anche chi viene al mondo a seguito di PMA, omologa od eterologa.
Proprio in ragione di tale fatto, la Cassazione ritiene che siano inapplicabili, in materia, i principi e le relative presunzioni dettate nel codice civile, tramite le quali si cerca di stabilire la certezza di una filiazione da procreazione naturale: il modo corretto di attribuire lo status genitoriale a seguito di PMA, cosa che a volte viene fatta anche contro la verità genetica (si pensi al caso della fecondazione eterologa), è infatti quello di basarsi sul principio del consenso e della responsabilità procreativa: “benché manchi il requisito dell’esistenza in vita di tutti i soggetti al momento della fecondazione dell’ovulo, deve ritenersi che una volta avvenuta la nascita, il figlio possa avere come padre colui che ha espresso il consenso ex art. 6 della legge predetta [la legge n 40/2004], senza mai revocarlo, dovendosi individuare in questo preciso momento la consapevole scelta della genitorialità”, dice la Cassazione.
Le tecniche di PMA -inoltre- rendono possibile il differimento della nascita, senza per questo incidere sulla certezza della paternità biologica.
L’interpretazione preferibile al caso specifico è, dunque, quella secondo la quale la disciplina di attribuzione dello status filiationis tramite le tecniche di PMA configuri un sistema alternativo, speciale, regolato dalle disposizioni della legge n. 40 del 2004, che prevedono che la condizione di “figlio” venga direttamente attribuita dalla legge al bambino della coppia che abbia deciso di accedere, liberamente e consapevolmente, alle tecniche di PMA, senza bisogno di ulteriori manifestazioni di volontà.
Non possono, di conseguenza, trovare applicazione i meccanismi di prova presuntiva del codice civile riferibili alla generazione biologica naturale, quali quelli definiti dall’articolo 232 del codice civile stesso.
Cassazione – La tutela del nato deve prevalere su ogni altra considerazione
Secondo i giudici della Suprema Corte, infine, la circostanza che si sia fatto ricorso all’estero a tecniche di PMA non espressamente disciplinate nel nostro ordinamento non esclude, ma anzi impone, nel preminente interesse dal nato, l’applicazione di tutte le cautele possibili a tutela del minore: in altri termini, le conseguenze di una eventuale violazione di norme nazionali non possono mai ripercuotersi su chi è appena nato.
Il nato ha infatti diritto (tra le altre cose), oltre che di crescere nella propria famiglia, di avere certezza della propria provenienza biologica (uno degli aspetti in cui si manifesta e realizza la sua identità personale) e -conseguentemente- di avere riconosciuto il suo diritto a portare il cognome paterno.
La Cassazione decide quindi per un rinvio alla Corte d’Appello, pronunciandosi a favore della rettifica di un atto dello stato civile non corretto.
Corte di Cassazione – Prima Sezione Civile – Sentenza n. 13000/2019, in .pdf (scaricabile):
Corte di Cassazione - Prima Sezione Civile - Sentenza 13000-2019 (PMA)