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Sea Watch 3: il dovere di soccorso delle persone in pericolo (GIP Agrigento, 02 Luglio 2019)

Il 12 giugno 2019 la nave Sea Watch 3 individua, grazie all’aereo per ricognizione “Colibri”, 53 persone in stato di difficoltà in zona SAR libica (“era un gommone in condizioni precarie e nessuno aveva giubbotto di salvataggio, non avevano benzina per raggiungere alcun posto, non avevano esperienza nautica, né avevano un equipaggio”).

La Guardia Costiera Libica si incarica del salvataggio ma la Sea Watch 3, essendo molto vicina al luogo dell’evento, procede al recupero delle persone senza attenderli.

Una volta portati a bordo i naufraghi, la Sea Watch 3 richiede alle autorità italiane, maltesi, libiche e olandesi (lo stato di bandiera della nave) l’indicazione di un “porto sicuro” dove sbarcare i migranti.

È l’MRCC (Maritime Rescue Coordination Centre) libico a rispondere indicando alla Sea Watch 3 di sbarcare a Tripoli.

La comandante, tuttavia, si rifiuta di eseguire l’ordine dato che la Libia non può qualificarsi come un “porto sicuro” e a questo punto viene lasciata sola: Roma comunica di non essere l’autorità competente in base al luogo dove era stato effettuato il salvataggio, Amsterdam e La Valletta non danno alcun sostegno operativo.

Il 13 giugno, la Sea Watch 3 decide allora di dirigersi verso il luogo di sbarco sicuro geograficamente più vicino, ovvero Lampedusa.

Il Ministero degli Interni italiano intima alla nave di rivolgersi alla autorità SAR competente (ovvero alla Libia) per farsi assegnare un porto sicuro e di non entrare nelle nostre acque territoriali perché l’ingresso sarà considerato come “passaggio non inoffensivo” in quanto pregiudizievole dell’ordine pubblico.

La Sea Watch 3 resta in acque internazionali fino al 22 giugno, quando decide di invocare lo stato di necessità e di fare rotta per Lampedusa.

La comandante racconta: “la situazione psicologica stava peggiorando ogni giorno, molte persone soffrivano di stress post-traumatico (..) diverse persone del mio team hanno espresso serie preoccupazioni, uno dei medici ha detto che non avrebbe potuto prevedere più le reazioni delle persone a bordo, diceva che ogni piccola cosa avrebbe potuto far esplodere la situazione (..) le persone stavano perdendo la fiducia nell’equipaggio

Nonostante l’intervento della Guardia di Finanza, la Sea Watch 3 entra in acque territoriali italiane e getta l’ancora a poche miglia dalle ostruzioni portuali di Lampedusa.

Il 29 giugno 2019 l’equipaggio della Sea Watch 3, stremato, decide unilateralmente di procedere all’attracco e ormeggia a Lampedusa, rischiando nella manovra di urtare una vedetta della Guardia di Finanza frappostasi tra la nave e la banchina per evitare lo sbarco.

 

Le accuse al comandante Carola Rackete

Il Pubblico Ministero ravvisa

– violazione dell’articolo 1100 del codice della navigazione, ovvero “atti di resistenza o di violenza contro una nave da guerra nazionale” per aver intrapreso manovre evasive ai reiterati ordini di alt imposti dalla Guardia di Finanza e per essersi diretta verso la banchina del molo commerciale e avere ormeggiato incurante del fatto che la banchina fosse già occupata dall’imbarcazione dei finanzieri;

– violazione dell’articolo 337 del codice penale ovvero “resistenza a pubblico ufficiale” per aver usato violenza nell’opporsi ai pubblici ufficiali mentre compivano atti di polizia marittima.

 

La decisione del GIP di Agrigento

In merito al primo punto, il GIP ricorda che le unità navali della Guardia di Finanza sono considerate navi da guerra solo quando “operano fuori dalle acque territoriali ovvero in porti esteri ove non vi sia una autorità portuale” [Corte Costituzionale, sentenza n. 35/2000].
Per tale ragione (l’imbarcazione della Guardia di Finanza operava all’interno del porto di Lampedusa), cade l’ipotesi di reato di cui all’art 1100 cod. nav.

In merito al secondo punto, il GIP riconosce che “l’aver posto in essere una manovra pericolosa nei confronti dei pubblici ufficiali a bordo della motovedetta è stata sicuramente una scelta volontaria” di Carola.
Tuttavia, secondo il GIP, la comandante ha agito in adempimento di un dovere, specificamente un dovere di soccorso delle persone in pericolo previsto dalle normative internazionali che non si esaurisce nella mera presa a bordo dei naufraghi ma nella loro conduzione in un porto sicuro.
L’agire per adempiere a un dovere imposto da una norma giuridica, ex articolo 51 del codice penale, esime da pena colui che abbia commesso il fatto ed esclude responsabilità penali specifiche.

Più in generale, il GIP ricorda che, in base all’articolo 10 della Costituzione, l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute e da noi ratificate, che assumono un carattere di sovraordinazione rispetto alla disciplina interna.

Ergo, la decisione della comandante, oltre che dalle norme che impongono di prestare soccorso a chiunque si trovi in mare in condizioni di pericolo, è supportata dalla previsione dell’articolo 18 della “Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare” (UNCLOS – United Nations Convention on the Law of the Sea) che autorizza il passaggio di navi nelle acque territoriali (ed anche la fermata e l’ancoraggio) quando siano necessari per prestare soccorso a persone in pericolo, come nel caso specifico.

L’articolo 19 della medesima Convenzione UNCLOS, che prevede che il passaggio di un’imbarcazione nel mare territoriale sia considerato pregiudizievole per la pace, il buon ordine e la sicurezza dello Stato quando effettui “il carico o lo scarico (..) di persone (..) in violazione delle leggi o dei regolamenti vigenti nello Stato costiero”, viene invece interpretata dal GIP in maniera diversa da quanto ipotizzato dal Ministero degli Interni.
Il cosiddetto “carico o scarico” pregiudizievole dell’ordine pubblico, che impedirebbe il passaggio della nave in acque territoriali italiane, si applicherebbe infatti ad altre casistiche, quali ad esempio le attività di tratta di esseri umani, che nulla hanno a che vedere col caso in esame della ONG, impegnata semplicemente nel fornire soccorso a navi in difficoltà e nel salvataggio di naufraghi.

Inoltre, dato che la Sea Watch 3 era in acque territoriali italiane (e quindi in Italia) dal 22 giugno, il GIP ritiene si dovesse applicare al caso specifico anche l’articolo 10-ter del Testo Unico sull’immigrazione (il DLgs 286/1998) che prevede l’obbligo di soccorso e prima assistenza allo straniero entrato in territorio nazionale (anche irregolarmente) a seguito di operazioni di salvataggio in mare.

L’arresto della comandante non è così convalidato e la richiesta di misure cautelari rigettata.

 

L’Ordinanza dell’Ufficio del Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Agrigento del 02 luglio 2019, in .pdf (scaricabile):

Ufficio del Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Agrigento - Ordinanza del 02 Luglio 2019 (Sea Watch 3)

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