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Perché i rifugiati saranno la “nuova normalità”

La Banca Mondiale definisce uno Stato come “fragile” quando è povero, guidato da governi a scarsa legittimazione popolare e quando ha avuto la presenza sul suo territorio di una missione di pace delle Nazioni Unite negli ultimi tre anni.

Ad oggi, secondo il rapporto delle Nazioni Unite “Leaving no one behind”, 2 miliardi di persone vivono in Stati afflitti da fragilità, conflitti e violenze e desidererebbero, legittimamente, un avvenire migliore per sé e per i propri figli.

Il mondo sta assistendo a fenomeni migratori tra i più importanti di sempre.
Anche se, a livello macro, si è passati dal 57% della popolazione mondiale costretta a vivere con meno di due euro al giorno (nel 1990) al 43% del 2012, la crescita demografica ha comunque incrementato il numero delle persone definite “povere” che è così passato da 280 milioni del 1990 a 330 milioni del 2012.

Se a questo aggiungiamo anche l’impatto che i cambiamenti climatici stanno avendo su vaste aree del globo, è facile comprendere come i rifugiati saranno la “nuova normalità” se non interverremo al più presto con importanti investimenti in sviluppo sostenibile, pace e sicurezza.

 

Guerre e catastrofi naturali

Gli ultimi anni hanno visto oltre 40 milioni di persone spinte a lasciare la propria casa e a trovare protezione in altre zone del loro Paese (le cosiddette “internally-displaced persons“) e più di 28 milioni di persone abbandonare la propria terra natia per cercare rifugio in altre nazioni (come rifugiati/richiedenti asilo).

Le cause?
I conflitti e le persecuzioni che si protraggono da tempo negli Stati “fragili”, come ad esempio la Repubblica Democratica del Congo, il Sud Sudan o lo Yemen, che hanno portato queste migrazioni forzate a livelli mai raggiunti in precedenza.
Ad essi dobbiamo aggiungere il cambiamento climatico e i relativi disastri ambientali, che hanno flagellato le economie locali e i luoghi dove le persone abitavano e costringendole a lasciare la propria terra.
Da ultimo, vanno tenute in considerazione la crescita esponenziale della popolazione, l’urbanizzazione indiscriminata, la deforestazione, la pessima gestione del suolo e una governance degli eventi quasi mai all’altezza, incapace di guardare al lungo periodo e ad uno sviluppo sostenibile.
Nonostante le cifre varino da Paese a Paese, si può dire che -in generale- dagli anni ’70 del 1900 a oggi il rischio di essere colpiti da una catastrofe naturale sia quantomeno raddoppiato.
Nei prossimi anni, inoltre, ci si attendono sempre più periodi di siccità e fenomeni atmosferici violenti come alluvioni, cicloni o forti ondate di calore che metteranno a dura prova le persone che vivono negli Stati più fragili.

I dati sono impietosi e confermano il peggioramento del trend migratorio: il numero di persone costrette a migrare per cause legate a guerre, persecuzioni, violazioni di diritti umani o sfide climatiche è infatti aumentato sensibilmente dal 2007 al 2017 (da poco più di 40 milioni di persone a quasi 70 milioni).

 

La situazione in Africa

In aggiunta a guerre e disastri ambientali, l’Africa sconta anche una scarsità d’acqua e di impianti igienici maggiore rispetto ad altre aree del pianeta.

Tra l’altro, dei circa 2,2 miliardi di persone in più che dovrebbero popolare a breve il nostro pianeta, 1,3 dovrebbero nascere in Africa.

Ad oggi, i dati ci dicono che circa la metà della popolazione mondiale che utilizza acqua proveniente da fonti non sicure vive in Africa sub-sahariana; tra di essi, solo Congo, Costa d’Avorio, Ghana e Nigeria riescono a fornire (seppur a percentuali non altissime) acqua potabile sicura. Unica eccellenza le minuscole isole Mayotte, che sono però un dipartimento d’oltremare francese.

Secondo i dati WHO/UNICEF, al 2015 l’accesso a impianti igienici essenziali era garantito in media al solo 28% della popolazione residente; gli altri facevano uso di latrine a cielo aperto, di secchi o pitali, o praticavano la defecazione all’aperto (23%).

Inoltre, una percentuale risibile della popolazione residente può fruire dell’acqua corrente o ha semplicemente sapone e acqua in casa.

Emblema della scarsa pianificazione e dello sfruttamento indiscriminato delle risorse è il caso del lago Chad, la cui superficie si è ridotta del 90% dal 1963 al 2010 a causa della diminuzione delle precipitazioni e di un uso sempre più intensivo e indiscriminato delle sue acque.
A Sud del lago si trovano i campi coltivati (il 15% del PIL della regione dipende infatti dall’agricoltura e il 60% della popolazione vive in aree rurali) ed è lì che ha luogo la competizione per le risorse: i pastori in fuga dalla desertificazione occupano gli stessi spazi degli agricoltori innescando una lotta fratricida per la sopravvivenza tra le cui pieghe, spesso, nascono e prosperano estremismo e terrorismo.

Una delle maggiori sfide della regione dell’Africa sub-sahariana sarà quindi proprio quella di migliorare la rete idrica (sia in termini di stoccaggio che in termini di fornitura di acqua potabile) ma anche di investire su energia, approvvigionamenti cibo, lavoro, educazione in modo da creare le condizioni adatte affinché le persone possano vivere serenamente nella loro terra natia, senza essere costrette da tensioni regionali, crisi economiche o ecosistemi compromessi a cercare fortuna altrove.

 

Il Rapporto delle Nazioni Unite (WWDR 2019) “Leaving no one behind”, in .pdf (scaricabile):

UN - Leaving no one behind (2019)

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