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Vietato il rimpatrio di chi rischia di essere perseguitato, anche se il soggetto ha perso lo status di rifugiato per aver commesso reati nel Paese ospitante (CJEU, 2019)

Il signor M., originario della Cecenia, ottiene diritto di asilo in Repubblica Ceca; dopo la concessione del permesso, tuttavia, viene condannato a una pena detentiva di nove anni per aver commesso un furto e un’estorsione in condizioni di recidiva (non era la prima volta che accadeva). Il 29 aprile 2014 il Ministro dell’Interno ceco decide di revocargli il diritto d’asilo e di non concedergli la protezione sussidiaria in quanto rappresenta un pericolo per la sicurezza dello Stato.

Il signor X., cittadino ivoriano, il 10 marzo 2010 viene condannato in primo grado a trenta mesi di reclusione per percosse e lesioni volontarie, detenzione ingiustificata di arma bianca e detenzione di arma vietata. Inoltre, circa un anno dopo, viene condannato dalla Corte di Appello di Bruxelles a quattro anni per violenza sessuale su minore di età compresa tra 14 e 16 anni. Il 03 Novembre 2015 presenta domanda di asilo alle autorità belghe in quanto teme persecuzioni nel suo Paese dovute al fatto che il padre e i familiari erano strettamente legati al precedente regime che governava la Costa d’Avorio. Il Commissario Generale belga rifiuta la sua domanda in quanto ritiene che il signor X. costituisca un “pericolo per la società”.

Un altro signor X. ottiene il riconoscimento di status di rifugiato da parte delle autorità belghe ma, il 20 dicembre 2010, viene condannato a una pena detentiva di 25 anni per omicidio e furto aggravato: il Commissario Generale belga gli revoca quindi la protezione internazionale precedentemente concessa.

 

Il fondamento giuridico alla base di queste decisioni

La Direttiva 2001/95 è la normativa europea che regolamenta il riconoscimento della protezione internazionale negli Stati Membri e che fissa criteri comuni per la sua applicazione.

L’articolo 14, commi 4 e 5, della Direttiva prevede che gli Stati Membri hanno la facoltà di non concedere lo status di rifugiato o di revocarlo nel caso in cui “la persona in questione costituisca un pericolo per la sicurezza dello Stato membro in cui si trova” o nel caso in cui la persona “condannata con sentenza passata in giudicato per un reato di particolare gravità costituisca un pericolo per la comunità di tale Stato membro”, come nei casi sopra citati.

Questi motivi di diniego/cessazione dello status di rifugiato, tuttavia, non trovano corrispondenza diretta nel dettato della Convenzione per la Protezione dei Rifugiati del 1951 (cosiddetta Convenzione di Ginevra), pietra angolare della disciplina giuridica internazionale relativa alla protezione dei rifugiati nonché testo su cui la Direttiva 2001/95 esplicitamente si fonda (ex articolo 78 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea e articolo 18 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea: “il diritto di asilo è garantito nel rispetto delle norme stabilite dalla Convenzione di Ginevra”, citati in sentenza).

Infatti, né l’articolo 1 F della Convenzione (le disposizioni della presente Convenzione non sono applicabili a chi ha commesso “un crimine contro la pace, un crimine di guerra, un crimine contro l’umanità” o “un crimine grave di diritto comune fuori dal paese ospitante prima di essere ammesso come rifugiato”) né nessun’altra delle sue disposizioni prevede in maniera esplicita che si possa negare lo status di rifugiato a una persona solo perché essa costituisce un pericolo per la sicurezza nazionale o una grave minaccia per la società dello Stato ospitante.

Le ipotesi che la Direttiva contempla per negare il riconoscimento dello status di rifugiato (“pericolo per la sicurezza nazionale” o una “grave minaccia per la società dello Stato ospitante”) corrispondono invece a quelle degli articoli 32 e 33 della Convenzione di Ginevra, le quali si riferiscono però solo alla casistica dell’espulsione dei rifugiati e non -appunto- alla negazione dello status di rifugiato.

Laddove le disposizioni della Convezione dovessero essere interpretate tassativamente, i giudici nazionali si domandano quindi se l’articolo 14 della Direttiva 2001/95 sia da considerarsi invalido, in quanto in contrasto col dettato della Convenzione di Ginevra.

 

Il parere della Corte di Giustizia

La Corte si pronuncia in favore della validità dell’articolo 14 della Direttiva 2001/95 perché non in contrasto con le altre normative/disposizioni citate.

La revoca dello status di rifugiato o il diniego del riconoscimento (ex articolo 14 della Direttiva) è infatti una misura lecita che gli Stati possono adottare a seconda dei casi specifici che si trovino a dover esaminare e che ha l’effetto di far perdere la qualifica di “persona regolarmente soggiornante” nello Stato Membro.

Il soggetto sottoposto a tale misura verrà quindi privato del permesso di soggiorno, perderà la residenza nello Stato ospitante e, conseguentemente, i diritti e i benefici ad essa collegati.

Tuttavia, gli Stati devono tenere a mente che il soggetto continuerà a godere di tutti quei diritti che non richiedono una residenza regolare sul territorio dello Stato ospitante per essere riconosciuti, primo tra tutti il diritto di non-respingimento verso Paesi nei quali potrebbe rischiare di essere sottoposto a tortura o a trattamenti inumani e degradanti.

Ergo, fintanto che il cittadino di un paese extra-UE o un apolide abbia un fondato timore di essere perseguitato nel suo paese di origine o di residenza, questa persona dev’essere qualificata come rifugiato ai sensi della normativa europea e ciò indipendentemente dal fatto che lo status di rifugiato ai sensi della Direttiva le sia stato formalmente riconosciuto.

Inoltre, benché l’articolo 33 della Convenzione di Ginevra consenta a determinate condizioni di respingere una persona verso il suo Paese di origine o verso un altro Paese (“La presente disposizione [il divieto di espulsione] non può tuttavia essere fatta valere da un rifugiato se per motivi seri egli debba essere considerato un pericolo per la sicurezza del paese in cui risiede oppure costituisca, a causa di una condanna definitiva per un crimine o un delitto particolarmente grave, una minaccia per la collettività di detto paese“) la Corte ritiene che, in casi come quelli in oggetto, il diritto dell’Unione Europea, più restrittivo in materia, debba prevalere.

La Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea vieta infatti in termini categorici (articolo 4 e articolo 19.2) la tortura, le pene e i trattamenti inumani o degradanti e, a prescindere dal comportamento dell’interessato, l’allontanamento verso uno Stato dove esista un serio rischio che una persona sia sottoposta a trattamenti di tal genere.

 

La sentenza della Corte di Giustizia Unione Europea – Grande Sezione – 14 maggio 2019 (C‑391/16, C‑77/17 e C‑78/17), in .pdf (scaricabile):

Corte di Giustizia Unione Europea - Grande Sezione - 14 maggio 2019 (C‑391-16, C‑77-17 e C‑78-17)

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