Tutti ricordiamo la battaglia degli Englaro per far valere i convincimenti etici della figlia e ottenere la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale, somministrate tramite sondino nasogastrico e considerate dalla famiglia come “accanimento terapeutico”.
Eluana giaceva infatti in uno stato vegetativo permanente a seguito di un grave trauma riportato in un incidente stradale occorsole nel 1992, quando era solo ventenne.
Pur essendo in grado di respirare spontaneamente, non vi era alcun segno di attività psichica e di partecipazione all’ambiente e la sua sopravvivenza era garantita solo attraverso tali pratiche mediche.
Eluana non aveva predisposto, quando era ancora in possesso della capacità di intendere e di volere, alcuna dichiarazione anticipata di trattamento, ma sue precedenti dichiarazioni facevano propendere per un’idea di vita molto diversa da quella che stava purtroppo vivendo.
Il Tribunale di Lecco
In primo grado, il Tribunale di Lecco statuisce che, ai sensi degli artt. 2 e 32 Cost., un trattamento terapeutico o di alimentazione, anche invasivo, indispensabile a tenere in vita una persona non capace di prestarvi consenso, non solo è lecito, ma dovuto, in quanto espressione del dovere di solidarietà posto a carico dei consociati, che non possono abbandonare uno di loro nel momento in cui non sia in grado di manifestare la sua volontà.
Mentre ogni persona pienamente capace di intendere e di volere può rifiutare qualsiasi trattamento terapeutico o nutrizionale, anche se necessario alla sua sopravvivenza, quando la persona non è capace di intendere e di volere (e quindi non può autodeterminarsi) deve prevalere la tutela del diritto alla vita.
Non si può infatti operare una distinzione tra vite degne e non degne di essere vissute e determinare, in maniera coattiva, la fine di una persona.
La Corte d’Appello di Milano
Anche in Appello, la Corte di Milano ritiene che la sospensione della nutrizione con sondino nasogastrico avrebbe condotto Eluana a morte certa nel volgere di pochi giorni e sarebbe equivalsa, quindi, ad una eutanasia indiretta omissiva.
In questi casi specifici (ovvero in assenza di chiara manifestazione di volontà del soggetto), il bene vita deve essere garantito, indipendentemente dalla qualità della vita stessa e dalle percezioni soggettive che di detta qualità si possono avere.
Anche le dichiarazioni generiche rese ai familiari prima dell’incidente (preferenza della morte piuttosto che la disabilità) non hanno, secondo i giudici di Milano, il valore di una personale, consapevole ed attuale determinazione volitiva, maturata con assoluta cognizione di causa che possa essere utilizzata adesso per porre fine alla vita di Eluana.
Il ricorso in Cassazione
In Cassazione, la famiglia chiede nuovamente di riconoscere l’esistenza di accanimento terapeutico sul corpo di Eluana e di vietare tale pratica medica. L’alimentazione e l’idratazione artificiali sono infatti percepiti come un insensato prolungamento forzoso della vita, finalizzato a preservarne una pura funzionalità meccanica e biologica senza alcun beneficio od utilità per la paziente
La famiglia chiede anche di riconoscere che la richiesta avanzata dal tutore (il papà) non si basa su un giudizio maturato a posteriori da parte di un soggetto terzo che si stia arbitrariamente arrogando il diritto di interrompere la vita di un’altra persona ma corrisponde alla attuazione delle opinioni a suo tempo espresse da Eluana su situazioni simili e dei di lei convincimenti sul significato della “dignità” della persona.
Giustamente, l’indisponibilità ed irrinunciabilità del diritto alla vita è garantita dall’ordinamento per evitare che soggetti diversi da quello che deve vivere, il quale potrebbe versare in stato di debolezza e minorità, si sostituiscano a lui nella decisione più importante.
Tuttavia, afferma la parte ricorrente, sarebbe errato sancire il principio dell’indisponibilità della propria vita in ossequio ad un interesse altrui, pubblico o collettivo, sovraordinato e distinto da quello della persona che vive.
Quando, come nel caso in esame, l’autodeterminazione non è più possibile, bisogna perlomeno assicurarsi che ciò che resta dell’individualità umana, in cui si ripone la cosiddetta “dignità” non vada perduta.
E tale individualità andrebbe perduta, secondo la famiglia, “qualora un’altra persona, diversa da quella che deve vivere, potesse illimitatamente ingerirsi nella sfera personale dell’incapace per manipolarla fin nell’intimo, fino al punto di imporre il mantenimento di funzioni vitali altrimenti perdute”.
Nessuno può costringere qualcun altro a vivere come egli vorrebbe.
“Non è la vita in sé, che è un dono, a potere essere mai indegna; ad essere indegno può essere solo il protrarre artificialmente il vivere, oltre quel che altrimenti avverrebbe, solo grazie all’intervento del medico o comunque di un altro, che non è la persona che si costringe alla vita”.
La decisione della Corte di Cassazione
La Corte comincia la sua disamina sottolineando -ancora una volta, se mai ce ne fosse bisogno- l’essenzialità della pratica del consenso informato: il consenso è l’atto che costituisce legittimazione e fondamento del trattamento sanitario e senza di esso l’intervento del medico è sicuramente illecito, anche quando è praticato nell’interesse del paziente.
Il consenso libero e informato rappresenta una forma di rispetto per la libertà dell’individuo e un mezzo per il perseguimento dei suoi migliori interessi.
Esso ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale.
Il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte, non può (e non deve) mai essere scambiato per un’ipotesi di eutanasia, ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita causando positivamente la morte, ma come un libero atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale.
Deve quindi escludersi che il diritto alla autodeterminazione terapeutica del paziente (quando fondato su un consenso informato, autentico ed attuale) incontri un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene della vita.
Deve anche escludersi, in via di principio, che la salute dell’individuo possa essere oggetto di imposizione autoritativo-coattiva; quando questo avviene (ad esempio, per imposizione di legge quando è necessario impedire che la salute del singolo possa arrecare danno alla salute degli altri), il provvedimento deve sempre comunque anche essere utile alla salute di chi vi sia sottoposto.
Ciò è conforme al principio personalistico che anima la nostra Costituzione, la quale vede nella persona umana un valore etico in sé e guarda al limite del «rispetto della persona umana» sulla base dell’insieme delle convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che orientano le determinazioni volitive di ognuno di noi.
Ergo, mentre è pacifica la libera disponibilità del bene salute (e del bene vita) da parte del diretto interessato nel possesso delle sue capacità di intendere e di volere, il problema si pone quando il soggetto adulto (che non abbia disposto diversamente in precedenza) non è in grado di manifestare la propria volontà a causa del suo stato di totale incapacità.
La Corte di Cassazione ritiene che il tutore (investito di una funzione di diritto privato) non abbia un potere incondizionato di disporre della salute (diritto personalissimo dell’individuo) della persona incosciente.
Chi versa in stato vegetativo permanente è, a tutti gli effetti, persona in senso pieno, che deve essere rispettata e tutelata nei suoi diritti fondamentali.
Il tutore deve quindi decidere non “al posto” dell’incapace né “per” l’incapace, ma “con” l’incapace, ovvero ricostruendo la decisione ipotetica che il paziente incosciente avrebbe assunto ove fosse stato capace, tenendo conto dei desideri da lui espressi prima della perdita della coscienza, “ovvero inferendo quella volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche”.
C’è chi ritiene che sia nel proprio miglior interesse essere tenuto in vita artificialmente il più a lungo possibile, anche privo di coscienza e c’è invece chi ritiene che sia assolutamente contrario ai propri convincimenti sopravvivere indefinitamente in una condizione di vita priva della percezione del mondo esterno: uno Stato come il nostro, organizzato sul pluralismo dei valori e che mette al centro del rapporto tra paziente e medico il principio di autodeterminazione e la libertà di scelta, non può che rispettare anche quest’ultima scelta.
La Corte di Cassazione reputa che il giudice debba esprimere una forma di controllo della legittimità della scelta effettuata dal tutore nell’interesse dell’incapace.
Soltanto: (a) quando la condizione di stato vegetativo sia irreversibile e (b) l’istanza del tutore sia realmente espressiva della voce del rappresentato (sulla base della sua idea di dignità della persona e dei suoi convincimenti etici, religiosi, culturali e filosofici) il giudice può autorizzare l’operato del legale rappresentante.
Ove l’uno e l’altro presupposto non sussistano, il giudice deve dare incondizionata prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dal grado di salute, di autonomia e di capacità di intendere e di volere del soggetto interessato e dalla percezione, che altri possano avere, della qualità della vita stessa.
Ove l’uno e l’altro presupposto non sussistano, l’alimentazione e l’idratazione artificiale non costituiscono oggettivamente una forma di accanimento terapeutico ma rappresentano, piuttosto, un presidio proporzionato rivolto al mantenimento del soffio vitale
Secondo la Corte, i giudici d’appello non hanno verificato in maniera approfondita le dichiarazioni di Eluana e, anzi, hanno dubitato della loro attendibilità ritenendole inidonee a configurarsi come un testamento di vita.
Tale accertamento era invece dovuto e deve essere effettuato nel merito. La Corte rinvia così la causa a diversa Sezione della Corte d’Appello di Milano per ulteriore esame.
La sentenza della Corte di Cassazione – Sezione Prima Civile – n. 21748 del 16 ottobre 2007, in .pdf (scaricabile):
Corte di Cassazione - Sezione Prima Civile - Sentenza n. 21748-2007 (Englaro)