Le norme internazionali che disciplinano la ricerca e il soccorso in mare di chi si trovi in situazione di pericolo mettono al primo posto l’obbligo di tutelare la vita umana, senza eccezione alcuna.
Secondo l’articolo 98.1 della “Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare” (UNCLOS – United Nations Convention on the Law of the Sea), ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batta la sua bandiera “presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo“.
La “Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare” (SOLAS –Safety Of Life at Sea), Capitolo 5, Regolamento 33, ribadisce che il comandante “debba procedere quanto più velocemente possibile in soccorso” di persone in pericolo.
Inoltre, l’art. 98.2 della Convenzione UNCLOS prevede l’obbligo, per gli Stati, di istituire e mantenere un adeguato ed effettivo servizio di ricerca e soccorso, relativo alla sicurezza in mare e, ove necessario, di cooperare a tale scopo con gli Stati limitrofi.
La “Convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo” (SAR – Search and Rescue) si incentra proprio su questo ultimo aspetto e, al punto 2.1.9, stabilisce che nel caso in cui gli Stati contraenti vengano informati che una persona si trova in pericolo in mezzo al mare, le autorità responsabili della zona di ricerca e salvataggio assegnata assicurano il coordinamento delle operazioni e adottano immediatamente le misure necessarie per fornire tutta l’assistenza possibile.
Nel recente passato, l’IMO (International Maritime Organization) ha approvato alcuni emendamenti alla Convenzione SOLAS e alla Convenzione SAR (entrati in vigore il 1 luglio 2006 per gli Stati che hanno deciso di ratificarli, tra i quali –come sappiamo– non vi è Malta) che prevedono che lo Stato responsabile della zona SAR in cui è avvenuto il soccorso di persone in pericolo debba individuare, al più presto, un luogo sicuro (“place of safety”) dove sbarcare i migranti.
“The Contracting Government/the Party responsible for the search and rescue region in which such assistance is rendered shall exercise primary responsiblity for ensuring such coordination and co-operation occurs, so that survivors assisted are disembarked from the assisting ship and delivered to a place of safety”.
Le successive “Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare” del 20 Maggio 2004 (adottate per la corretta implementazione dei suddetti emendamenti) e la relativa Circolare esplicativa dell’IMO del 2009 ribadiscono poi lo stesso concetto (ad es. par. 1.2: “the responsibility to provide follow up care of survivors and to deliver the persons retrieved at sea to a place of safety”) precisando che lo Stato cui appartiene l’MRCC (Maritime Rescue Coordination Centre) che abbia assunto il coordinamento delle operazioni di soccorso ha l’obbligo di individuare (da intendersi come: fornirlo sul proprio territorio o provvedere affinché qualcuno lo fornisca) un luogo sicuro ove sbarcare le persone soccorse.
Ma cosa si intende quindi per “porto sicuro”?
Lo chiariscono le “Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare” dell’IMO (par. 6.12): una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse, dove la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata, le necessità umane primarie (come cibo, alloggio e cure mediche) possono essere soddisfatte e dal quale può essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti alla loro prossima destinazione (o a quella finale).
Una nave, anche se ben equipaggiata, può servire da “porto sicuro” temporaneo ma non può essere considerata una soluzione definitiva e gli Stati devono sgravare il capitano e l’equipaggio da questo onere non appena riescano ad individuare una soluzione alternativa (par. 6.13 delle Linee Guida).
Data l’urgenza insita nelle operazioni di salvataggio e gli ovvi disagi che ne derivano, è prassi che l’MRCC che coordina le operazioni opti in prima battuta per il “porto sicuro” disponibile più vicino al luogo di salvataggio: se tale luogo si trova sul territorio di uno Stato differente da quello di appartenenza dell’MRCC, lo sbarco può avvenire solo previo accordo tra i due Stati.
Tuttavia, laddove le persone soccorse in mare, oltre che “naufraghi” si possano qualificare – in termini di status – anche come “rifugiati/richiedenti asilo”, i requisiti che deve avere un “porto sicuro” si ampliano.
Non è infatti più sufficiente che il “porto sicuro” garantisca la sicurezza dei naufraghi solo dal punto di vista della protezione fisica, ma deve anche garantire che lo sbarco avvenga in luoghi dove i “diritti di protezione internazionale” accordati ai rifugiati e ai richiedenti asilo dalle normative internazionali (come ad esempio la “Convenzione di Ginevra del 1951 relativa allo status di rifugiati”) siano rispettati.
Nel cercare un “place of safety”, lo Stato costiero deve quindi anche sincerarsi della “sicurezza” del luogo di sbarco proposto per quanto concerne gli obblighi di diritto internazionale posti a tutela dei rifugiati/richiedenti asilo.
In particolare, si applica il cosiddetto “principio di non respingimento” (art. 33, par. 1 della Convenzione di Ginevra del 1951) che sancisce che “nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche“.
Quindi, se uno Stato respinge una nave di migranti che ha fatto ingresso nelle proprie acque territoriali senza controllare se i soggetti a bordo possano essere considerati dei rifugiati, commette una violazione del principio di non respingimento se i territori verso cui la nave è respinta non offrono garanzie umanitarie sufficienti per l’incolumità dei migranti.
La Libia è un “porto sicuro”?
Per le ragioni appena viste e sulla base dei periodici rapporti delle Nazioni Unite e di associazioni umanitarie operanti sul territorio, la Libia non garantisce né la sicurezza fisica dei migranti né tanto meno il godimento dei loro diritti di protezione internazionale.
Il territorio libico è ancora teatro di scontri militari tra fazioni rivali e migliaia di migranti e rifugiati vengono arbitrariamente detenuti in condizioni deplorevoli, con accesso limitato a cure mediche, carenze dal punto di vista igienico-sanitario, sistematiche violenze, torture ed estorsioni.
Inoltre, come sottolineato anche dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nella sentenza Hirsi Jamaa, la Libia è priva di una legge sul diritto di asilo e priva di adeguate garanzie legali per i rifugiati. Le autorità libiche non fanno differenza tra lo stato di rifugiato, quello di richiedente asilo o altro tipo di migrante, trattando tutti allo stesso modo e rimpatriando i migranti nei loro Paesi di origine, incuranti del rischio di violazione dei diritti umani cui potrebbero andare incontro.
5 Comments
Pasquale di serio
19 Giugno 2019 at 5:28È il comandante della nave che decide il porto sicuro? Se paradossalmente ci sono 10 milioni di migranti in mare e il porto sicuro è ritenuto un porto italiano, l’Italia è obbligata ad accogliere 10 milioni di migranti?
mcasucci
24 Giugno 2019 at 14:40Il porto sicuro è individuato dallo Stato cui appartiene l’MRCC (Maritime Rescue Coordination Centre) che ha assunto il coordinamento delle operazioni, ovvero tipicamente l’MRCC responsabile della zona SAR in cui è avvenuto il soccorso.
L’MRCC decide se fornire un porto sul proprio territorio o, previ accordi intercorsi, se a fornirlo debba essere un altro Stato.
L’idea di fondo della normativa SAR sarebbe quella di permettere al comandante della nave che ha effettuato il salvataggio di sbarcare i naufraghi non appena possibile, con una deviazione minima dalla rotta inizialmente tracciata, in modo da non gravare troppo su chi (ad esempio un mercantile o un peschereccio) abbia prestato assistenza.
Tutte queste norme erano state pensate per la “gestione fisiologica” dell’emergenza in mare e sono uno strumento che funziona bene se le operazioni di salvataggio hanno carattere sporadico.
In situazioni di flussi più sostenuti, sarebbero certamente auspicabili nuove regole più chiare e condivise, quantomeno a livello di Unione Europea.
C.maestri
28 Luglio 2019 at 14:00A mio avviso l’Italia se continua ad accogliere migranti secondo le modalità attuali rischia a sua volta di non poter rappresentare più un porto sicuro per nessuno, neanche per gli italiani. Prova ne è l’alto numero di rappresentanti dello stato che sono vittime di questo improvviso disordine sociale. Penso si debba provvedere insieme a tutte le autorità e paesi interessati a rendere porti sicuri i vari paesi nordafricani, con grande vantaggio per l’autonomia africana nella gestione dei flussi migratori. Ovviamente mettendo questi paesi nordafricani in condizioni economiche, politiche e militari, per l’attuazione del progetto.
Massimo Corti
3 Luglio 2019 at 15:13Le verità contenute in questo articolo sono indiscutibili, come anche il Ministro Moavero Milanesi ha dichiarato che “la Libia non è un porto sicuro”. nonostante tutto, la posizione ufficiale del governo non cambia
Noi di ACAT Italia abbiamo lanciato tramite AVAAZ una petizione per il Presidente del Consiglio, perché dichiari in via ufficiale la situazione di “non sicurezza” dei porti libici e, quindi, cambi le politiche italiane sulla migrazione (petizione al link https://secure.avaaz.org/it/community_petitions/Presidente_del_Consiglio_Giuseppe_Conte_La_Libia_non_e_un_porto_sicuro/ ).
Reiteriamo l’invito a tutti.
Fabio Baroni
6 Luglio 2019 at 8:30Anche la Cina non è un porto sicuro? Ed ogni dittatura?