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L’incriminazione dell’aiuto al suicidio non deve tradursi in un ostacolo assoluto all’accoglimento delle richieste del malato

Il 14 febbraio 2018, la Prima Corte di Assise di Milano, nell’ambito del processo per l’incriminazione di Marco Cappato per aver accompagnato in Svizzera Dj Fabo nel suo ultimo viaggio, aveva sollevato dubbi di costituzionalità relativi all’articolo 580 del codice penale, nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio che non determinino o rafforzino il proposito suicidario alla stessa maniera di quelle dell’istigazione al suicidio (che presuppone, invece, un attivo ruolo di convincimento dell’aspirante suicida).

Il giudice a quo (il giudice “a partire dal quale comincia qualcosa”, ovvero il giudice che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale) aveva poi anche difeso con un certo trasporto il diritto del paziente alla propria autodeterminazione contro la visione paternalistica della tutela penale “ad ogni costo” del bene vita, fino a spingersi a postulare, a determinate condizioni, la libertà per l’individuo di decidere sulla propria vita anche nei casi in cui da ciò dipenda la sua morte.

 

L’incriminazione dell’aiuto al suicidio ha ancora una funzione compatibile con la Costituzione

La Consulta comincia subito col sottolineare come, a suo modo di vedere, l’incriminazione dell’aiuto al suicidio non possa essere ritenuta, in via generale, incompatibile con la Costituzione.

Il nostro ordinamento non punisce il suicidio né punisce il tentato suicidio.
Punisce, però, severamente (con la reclusione da cinque a dodici anni) chi concorre nel suicidio altrui, tanto nella forma del concorso morale, vale a dire determinando o rafforzando in altri il proposito suicida, quanto nella forma del concorso materiale, ossia agevolandone “in qualsiasi modo” l’esecuzione.
Il legislatore penale intende dunque, con queste norme, proteggere il soggetto da decisioni in suo danno: non ritenendo di poter colpire direttamente l’interessato, gli crea intorno una “cintura protettiva”, inibendo ai terzi di cooperare in qualsiasi modo con lui.

Nonostante la visione paternalistica della tutela penale “ad ogni costo” del bene vita sia sicuramente superata, la Corte Costituzionale ribadisce come l’articolo 580 del codice penale sia ancora funzionale alla protezione di interessi meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento, ovvero la tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili.

L’ordinamento penale intende infatti proteggere le persone che attraversano difficoltà e sofferenze da una scelta estrema e irreparabile come quella del suicidio, anche per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto tale gesto subiscano interferenze di ogni genere.

Quindi, anche se può essere vero che le condotte di istigazione al suicidio possano essere -in taluni casi- più incisive rispetto all’aiuto al suicidio, l’agevolazione dell’altrui suicidio non può essere confinata dall’ordinamento all’irrilevanza penale e alla categoria dell’inoffensività, anche quando non incida sul percorso deliberativo dell’aspirante suicida.
La sanzione penale deve permanere proprio per inibire quei comportamenti che possano andare a interferire indebitamente nelle decisioni di soggetti deboli e vulnerabili (persone malate, depresse, psicologicamente fragili, anziane o in solitudine), che vivono in condizioni concrete di disagio o di abbandono, e che potrebbero essere facilmente indotte a congedarsi prematuramente dalla vita, se l’ordinamento consentisse a chiunque di cooperare anche soltanto all’esecuzione di una loro scelta suicida, magari per ragioni di personale tornaconto.

Al legislatore penale non si può impedire, dunque, di vietare condotte che spianino la strada a scelte suicide in nome di una concezione astratta dell’autonomia individuale che ignora le condizioni nelle quali, spesso, simili decisioni vengono concepite.
Anzi, è compito della Repubblica porre in essere politiche pubbliche volte a sostenere chi versa in simili situazioni di fragilità, rimovendo, in tal modo, gli ostacoli che impediscano il pieno sviluppo della persona umana (art. 3 della Costituzione).

 

L’autodeterminazione in casi specifici come quello in esame

Il fatto che la Corte abbia riconosciuto all’articolo 580 c.p., nella parte in cui sanziona l’aiuto al suicidio, una funzione ancora attuale di tutela di interessi meritevoli di protezione (la tutela del diritto alla vita delle persone più deboli) non sta però a significare che tale tutela debba essere intesa in senso assoluto.

Nell’esame del caso specifico, si evince come Dj Fabo fosse una persona (a) affetta da una patologia irreversibile fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che trovava assolutamente intollerabili, (b) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale e (c) totalmente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.

In simili casi, la decisione di lasciarsi morire potrebbe essere già presa dal malato, secondo la legislazione vigente e con effetti vincolanti nei confronti dei terzi, a mezzo della richiesta di interruzione dei trattamenti di sostegno vitale in atto (nei quali rientrano anche i trattamenti di idratazione e nutrizione artificiale) e di contestuale sottoposizione a sedazione profonda continua (secondo la Legge 219/2017 sulle “disposizioni anticipate di trattamento”).

Se l’assistenza di terzi nel porre fine alla sua vita può presentarsi al malato come l’unica via d’uscita per sottrarsi, nel rispetto del proprio concetto di dignità della persona, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto, egli ha il diritto di rifiutare le cure in base agli artt. 13 e 32 della Costituzione, i quali stabiliscono, rispettivamente, che “la libertà personale è inviolabile”, e che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”.
La legge 219/2017 mira infatti -tra le altre cose-  a promuovere e valorizzare la relazione “che si basa sul consenso informato nel quale si incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico”: il medico “è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo”, rimanendo, “in conseguenza di ciò, […] esente da responsabilità civile o penale” (art. 1, comma 6).

La legislazione oggi in vigore, invece, non consente al medico di mettere a disposizione del paziente che versa nelle condizioni sopra descritte trattamenti diretti, non già ad eliminare le sue sofferenze, ma a determinarne la morte.

In tal modo, si costringe il paziente a subire un processo più lento e in ipotesi meno corrispondente alla propria visione della dignità nel morire: Fabo aveva scartato la soluzione dell’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale con contestuale sottoposizione a sedazione profonda proprio perché quest’ultima non gli avrebbe assicurato una morte rapida.
Non essendo egli, infatti, totalmente dipendente dal respiratore artificiale, la morte sarebbe sopravvenuta solo dopo un periodo di apprezzabile durata, quantificabile in alcuni giorni, cosa a suo modo di vedere non dignitosa e fonte di grandi sofferenze emotive per i propri cari.

La Corte così argomenta: se la legge ci consente oggi di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari – anche quando ciò richieda una condotta attiva da parte di terzi (quale il distacco o lo spegnimento di un macchinario, accompagnato dalla somministrazione di una sedazione profonda continua e di una terapia del dolore) – non vi è ragione per la quale il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto diverso che valga a sottrarlo al decorso più lento – apprezzato come contrario alla propria idea di morte dignitosa – conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale.

In altri termini, se chi è mantenuto in vita da un trattamento di sostegno artificiale è considerato dall’ordinamento in grado, a certe condizioni, di prendere la decisione di porre termine alla propria esistenza tramite l’interruzione di tale trattamento, non si vede perché il medesimo soggetto debba essere ritenuto viceversa bisognoso di una ferrea e indiscriminata protezione contro la propria volontà quando si discuta della decisione di concludere la propria esistenza con l’aiuto di altri, quale alternativa reputata maggiormente dignitosa alla predetta interruzione.

Entro lo specifico ambito considerato, il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce, quindi, per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione, imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita, senza che tale limitazione possa ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile, con conseguente lesione del principio della dignità umana, oltre che dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza in rapporto alle diverse condizioni soggettive.

 

La decisione della Corte

La Corte Costituzionale ritiene, tuttavia, che procedere depenalizzando le ipotesi di aiuto al suicidio prestato nei confronti di soggetti che versino nelle condizioni appena descritte (patologia irreversibile fonte di sofferenze fisiche e psicologiche intollerabili, sopravvivenza a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, totale capacità di prendere decisioni libere e consapevoli) non sia la maniera corretta di affrontare la situazione.

Così facendo, infatti, la materia resterebbe non disciplinata.
Paradossalmente qualsiasi soggetto – anche non esercente una professione sanitaria – potrebbe così lecitamente offrire, a casa propria o a domicilio, per spirito filantropico o a pagamento, assistenza al suicidio a pazienti che lo desiderino, senza alcun controllo ex ante sull’effettiva sussistenza, ad esempio, della loro capacità di autodeterminarsi, del carattere libero e informato della scelta da essi espressa e dell’irreversibilità della patologia da cui sono affetti.

 È compito invece del Parlamento – in uno spirito di leale e dialettica collaborazione istituzionale – portare avanti ogni opportuna riflessione e iniziativa per disciplinare le modalità per l’assistenza medica al suicidio di una persona adulta, capace, che abbia chiaramente consentito a porre fine alla propria vita e che soffra di una patologia grave e incurabile che gli/le provoca sofferenze persistenti e intollerabili.
Il Parlamento potrà poi anche decidere se prevedere ulteriori cautele e/o una disciplina ad hoc per vicende già in essere all’entrata in vigore della nuova legge.

La Corte decide quindi per un rinvio del giudizio in corso, fissando una nuova discussione delle questioni di legittimità costituzionale all’udienza del 24 settembre 2019, auspicando che, per allora, la questione potrà essere valutata alla luce di una nuova legge che regoli la materia in conformità alle segnalate esigenze di tutela.

 

L’Ordinanza n. 207/2018 della Corte Costituzionale, in .pdf (scaricabile):

Ordinanza n. 207-2018 Corte Costituzionale

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