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L’istigazione, l’aiuto al suicidio (art. 580 c.p.) e il caso Cappato-Dj Fabo

L’articolo 580 del codice penale sanziona con pene detentive che vanno dai 5 ai 12 anni chi intervenga per determinare o rafforzare il processo di formazione della decisione suicidaria dell’aspirante suicida (la cosiddetta “istigazione”) o per chi contribuisca alla realizzazione del suicidio sul piano materiale (il cosiddetto “aiuto”).

L’istigazione comprende sia la condotta di chi determini il suicidio altrui, facendogli prendere una decisione o abbracciare un progetto che prima non albergava nella sua mente, sia quella di chi rafforzi il proposito ancora non sicuro, non definito, dell’aspirante suicida.
L’aiuto comprende invece le condotte di chi offra “in ogni modo” un’agevolazione alla realizzazione della decisione di auto sopprimersi dell’aspirante suicida.

Le pene sono ridotte da 1 a 5 anni di reclusione in caso il suicidio non vada a buon fine e, comunque, dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima dell’aspirante suicida.
Le pene sono invece aumentate se l’aspirante suicida è un minore di 18 anni, un infermo di mente o un soggetto in condizioni di deficienza psichica a causa di altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti.
Se la persona è minore di 14 anni si applicano invece direttamente le regole dell’omicidio.

 

Il codice Rocco del 1930

Le norme attualmente in vigore sull’omicidio del consenziente (art 579 c.p.) e sull’istigazione e aiuto al suicidio (art 580 c.p.), appena illustrata, sono state introdotte nell’ordinamento italiano nel 1930 dal cosiddetto codice Rocco.

All’origine dell’incriminazione prevista dall’art. 580 c.p. vi era la considerazione che il suicidio fosse una condotta connotata da elementi di disvalore perché contraria ai principi fondamentali riconosciuti dalla società, nello specifico quello della sacralità/indisponibilità della vita in relazione agli obblighi sociali a carico dell’individuo, ritenuti preminenti dal regime fascista.
Nei lavori preparatori del codice penale Rocco si affermava: “Non vi è dubbio, per ragioni che non è qui luogo a diffusamente ripetere, ma che si ricollegano con la prevalenza dell’interesse statuale e sociale sull’egoismo individuale, che la vita umana e l’integrità fisica siano beni di cui non si può liberamente disporre“.
Il legislatore, pur sapendo che il riprovevole atto del suicidio era un atto inutilmente perseguibile a livello penale, voleva comunque sanzionare chiunque concorresse in qualsiasi modo nel fatto altrui: la ratio della norma si basava sul “principio che l’individuo non possa liberamente disporre della propria vita” e sul fine “di contribuire alla conservazione del bene giuridico della vita, impedendo che di essa si faccia scempio con più meditata preordinazione dei mezzi e con più ponderata esecuzione” (dalla “Relazione al Re” che aveva accompagnato il progetto definitivo del codice penale Rocco).

Più recentemente, una pronuncia della Corte di Cassazione del 2003 (Cass. sez. I pen., n. 33244 del 9.5.2013) ha ribadito il punto, affermando che “il suicidio, pur non essendo punito in sé nel vigente ordinamento penale a titolo di tentativo, costituisce pur sempre una scelta moralmente non condivisibile, non giustificabile ed avversata dalla stragrande maggioranza dei consociati, a prescindere dalle loro convinzioni religiose e politiche, siccome contraria al comune modo di sentire, in quanto negatrice del principio fondamentale su cui si fonda ogni comunità organizzata e costituita dal rispetto e dalla promozione della vita in ogni sua manifestazione”.

 

Le nuove tendenze dottrinali e giurisprudenziali

L’interpretazione proposta dalla Corte di Cassazione nella pronuncia del 2013 apparirebbe conseguenza del permanere della comune considerazione del suicidio come fatto socialmente riprovevole e del prevalere della tutela legislativa “del bene supremo della vita”.

La visione paternalistica della tutela penale “ad ogni costo” del bene vita sta però mutando.

La disciplina dettata dal Codice Rocco del 1930 deve essere infatti interpretata, secondo la Prima Corte di Assise di Milano che ha deciso del caso Cappato nel 2018, alla luce dei nuovi principi introdotti nel 1948 dalla Costituzione della Repubblica Italiana.

Principio cardine della Costituzione è quello personalistico, che pone “l’uomo” e non lo Stato al centro della vita sociale e afferma “l’inviolabilità dei suoi diritti” come valore preminente.
L’art. 2 Cost. recita infatti: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.
Seppur sull’individuo incombano significativi obblighi (obblighi di solidarietà politica, economica e sociale), proprio per la preminenza dell’individuo sulla struttura sociale del Paese, la vita umana non può e non deve essere concepita in funzione di un fine eteronomo rispetto al suo titolare.

A ciascun individuo è inoltre garantita la libertà personale rispetto a interferenze arbitrarie dello Stato.
L’art. 13 Cost recita: “La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”.
Dall’inviolabilità della libertà personale discende, per quanto rileva ai fini del decidere, “il potere della persona di disporre del proprio corpo” (Corte Costituzionale n. 471/1990) e il fatto che “la persona non possa essere costretta a subire un trattamento sanitario non voluto in assenza di una norma che esplicitamente lo imponga” (Corte Costituzionale n. 238/1996).

Dai principi costituzionali sopra menzionati, deriva la libertà per l’individuo di decidere sulla propria vita ancorché da ciò dipenda la sua morte.
Peraltro, nella nostra Carta Costituzionale non vi sono divieti all’esercizio di attività per sé pericolose (a tutela “del bene supremo della vita”) o, ad esempio, non vi è traccia dell’enunciazione di un ipotetico “obbligo di curarsi”.
L’obbligo a sottoporsi a una determinata terapia può intervenire solo per legge e solo ai fini di evitare di creare pericolo per gli altri.
Solo in questi limiti può essere compresso il diritto alla libertà dell’individuo a decidere sulla propria vita.

L’art. 32 Cost (“Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”) declina ulteriormente il diritto alla libertà e all’autodeterminazione nel campo della tutela della salute delle persone.
Con riferimento ai limiti dei doveri/poteri d’intervento dello Stato in ambito sanitario, la giurisprudenza costituzionale e di legittimità ha riconosciuto in modo sempre più deciso il diritto del paziente all’autodeterminazione nell’individuare le cure a cui sottoporsi e l’obbligo di rispettarne la decisione, anche se da questo possa derivare la sua morte.

Su tutte, la pronuncia della Cassazione sul caso Englaro (Cass civ. sez. I, 16.10.2007 n. 21748) che ha ribadito che “il diritto alla salute, come tutti i diritti di libertà, implica la tutela del suo risvolto negativo: il diritto di perdere la salute, di ammalarsi, di non curarsi, di vivere le fasi finali della propria esistenza secondo canoni di dignità propri dell’interessato, finanche di lasciarsi morire“, rilevando poi che “il consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia, di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale. Ciò è conforme al principio personalistico che anima la nostra Costituzione, la quale vede nella persona umana un valore etico in sé, vieta ogni strumentalizzazione della medesima per alcun fine eteronomo ed assorbente, concepisce l’intervento solidaristico e sociale in funzione della persona e del suo sviluppo e non viceversa”, per chiudere affermando “Deve escludersi che il diritto all ‘autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite allorché da esso consegue il sacrificio del bene della vita. Benché sia stato talora prospettato un obbligo per l’individuo di attivarsi a vantaggio della propria salute o un divieto di rifiutare trattamenti o di omettere comportamenti ritenuti vantaggiosi o addirittura necessari per il mantenimento o il ristabilimento di essa, il Collegio ritiene che la salute dell’individuo non possa essere oggetto di imposizione autoritativo-coattiva”.

Anche a livello di diritto europeo, le sentenze più recenti della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo hanno affermato che il diritto all’autodeterminazione si esplica nella facoltà per ogni individuo, che sia in grado di assumere determinazioni consapevoli e ponderate, di decidere “se e come porre termine alla sua vita” (sentenza Koch contro Germania, 19.7.2012).

 

I dubbi della Prima Corte di Assise di Milano

La Corte ritiene che il riconoscimento del diritto di ciascun individuo di autodeterminarsi, anche su quando e come porre fine alla propria esistenza, renda ingiustificata la sanzione penale (o, perlomeno, una sanzione penale così severa come quella prevista attualmente dall’art 580 c.p.) nel caso in cui le condotte di partecipazione al suicidio siano state di mera attuazione di quanto richiesto da chi aveva già fatto la sua scelta in maniera libera e consapevole.

Quindi, mentre la Corte considera sanzionabili le condotte di istigazione che “in qualsiasi modo” possano alterare il percorso psichico dell’aspirante suicida, interferendo sulla sua scelta libera e consapevole, una sanzione penale attenuata (o addirittura nessuna sanzione) dovrebbe essere applicata per chi abbia offerto aiuto al potenziale suicida, purché la condotta dell’agente “agevolatore” si sia posta solo come strumento per la realizzazione della libera e consapevole volontà altrui.

Questa interpretazione confligge però con una sentenza della Cassazione del 1998 (Cass. pen. Sez 1, n. 3147 del 6.2.1998), dove le condotte di agevolazione al suicidio erano state considerate come alternative a quelle di istigazione e identificate come punibili nella stessa maniera a prescindere dalla ricaduta sul processo deliberativo dell’aspirante suicida.
In altri termini, la Cassazione aveva ritenuto come ugualmente punibili l’istigazione al suicidio e i comportamenti di “aiuto” al suicidio slegati dall’istigazione, applicando così l’intera pena prevista al soggetto ”agevolatore” anche nel caso in cui tale soggetto fosse stato solo un mero esecutore di volontà precedentemente formatesi.

Appurato che, per gli accertamenti svolti durante il processo, la condotta di Marco Cappato non ha inciso sul processo deliberativo di Fabiano Antoniani in relazione alla decisione di porre fine alla propria vita, mentre Cappato è stato sicuramente la “condizione” per il realizzarsi del proposito suicidario (avendo accompagnato Fabiano in Svizzera), la condotta sanzionabile dovrebbe essere solo quella relativa all’aiuto al suicidio.

Tuttavia, la Corte ritiene iniquo considerare le due condotte (istigazione e aiuto) totalmente comparabili sotto il profilo della pena, proprio perché le prime sono certamente più incisive rispetto a quelle di chi abbia semplicemente contribuito al realizzarsi dell’altrui autonoma deliberazione.

La Corte ha quindi sospeso il procedimento e trasmesso gli atti alla Corte Costituzionale per un esame di costituzionalità dell’art 580 c.p. relativamente ai rilievi sopra sollevati:
– è corretto incriminare le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione e quindi a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito di suicidio?
– è corretto ritenere che le condotte di agevolazione dell’esecuzione del suicidio, che non incidano sul percorso deliberativo dell’aspirante suicida, siano sanzionabili con la pena della reclusione da 5 a 12 anni, senza distinzione rispetto alle condotte di istigazione?

La riunione della Corte Costituzionale è stata messa in calendario per il 23 ottobre prossimo.

 

L’Ordinanza della Prima Corte d’Assise di Milano del 14 febbraio 2018, in .pdf (scaricabile):

Prima Corte di Assise di Milano, Ordinanza 14 febbraio 2018

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