Il 29 Giugno scorso, dopo circa 14 ore di accese discussioni, il presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk twittava: “i 28 leader hanno trovato un accordo sulle conclusioni del consiglio europeo, inclusa l’immigrazione“.
Ometteva però di specificare che quell’accordo era il frutto di troppi compromessi al ribasso.
Nel documento licenziato dal Consiglio, i leader europei ammettono che il buon funzionamento della politica dell’Unione Europea presuppone “un approccio globale alla migrazione che combini un controllo più efficace delle frontiere esterne dell’UE, il rafforzamento dell’azione esterna e la dimensione interna”.
Il concetto di “approccio globale” viene poi rafforzato da ulteriori dichiarazioni di principio che garantiscono la vicinanza di tutti all’Italia e l’impegno comune per “porre fine alle attività dei trafficanti”.
A questo si aggiungono generiche indicazioni programmatiche, quali quelle relative agli sforzi comuni da mettere in campo per un maggiore sostegno “a favore della regione del Sahel, della guardia costiera libica, delle comunità costiere e meridionali”.
Terminata la parte delle buone intenzioni, però, giungono i messaggi veri e propri.
Innanzitutto, il documento sottolinea che l’Unione Europea non può assorbire i flussi di migranti attuali e l’obiettivo prioritario dei 28 è quello di fermarli o di rimpatriarli al più presto: “È necessario compiere con urgenza maggiori sforzi per assicurare rapidi rimpatri e prevenire lo sviluppo di nuove rotte marittime o terrestri”.
Non solo, nonostante i rapporti di numerose organizzazioni umanitarie sulle sistematiche violazioni dei diritti umani da parte delle autorità libiche, si legittima ancora il ruolo di quel Paese e delle sue milizie ribadendo che “tutte le navi operanti nel Mediterraneo non devono (…) interferire con le operazioni della guardia costiera libica”.
Secondariamente, si conferma che (per ora) il Regolamento di Dublino non si tocca.
Tutte le misure di solidarietà tra Stati Membri (come ricollocamenti o reinsediamenti) sono solo ed esclusivamente su base volontaria: questo significa che, ad esempio, nonostante pendano sulle loro teste le decisioni del Consiglio e della Corte di Giustizia Europea sulle quote di migranti da ricollocare nei diversi Stati Membri, Polonia, Ungheria e Slovacchia continueranno a fare orecchie da mercante lasciando gli Stati costieri di prima accoglienza a sobbarcarsi l’intera gestione del flusso migratorio.
Anche i nuovi “centri sorvegliati” (in fondo, niente di più che dei nuovi “hotspot”) che dovrebbero essere istituiti negli Stati membri allo scopo di distinguere rapidamente i migranti irregolari (da rimpatriare) dalle persone bisognose di protezione internazionale, saranno implementati solo su base volontaria, lasciando presumibilmente l’intero onere sulle spalle degli Stati di primo arrivo.
Da ultimo, due bacchettate indirette all’Italia e alla Grecia.
Il documento rimarca la necessità che gli Stati membri assicurino il controllo efficace delle frontiere esterne dell’UE (con il sostegno finanziario e materiale dell’UE, beninteso) nonché la necessità di intensificare “notevolmente” l’effettivo rimpatrio dei migranti irregolari.
I movimenti secondari di richiedenti asilo, poi, sempre secondo quanto riportato nel documento finale, “rischiano di compromettere l’integrità del sistema europeo comune di asilo e l’acquis di Schengen”. Gli Stati membri dovrebbero quindi adottare tutte le misure legislative e amministrative interne necessarie per contrastare tali movimenti.
Traduzione: sarebbe meglio che Italia e Grecia lavorassero più alacremente per rimpatriare coloro che non hanno diritto a restare sul suolo europeo e che impedissero con più efficacia ai migranti in attesa di pronunciamento sulla domanda di asilo di recarsi in altri Stati Membri.
Invece che accettare una ragionevole ripartizione dell’onere umanitario a livello europeo (ad esempio tramite l’istituzione di corridoi umanitari ufficiali che possano favorire una immigrazione legale e controllata di persone bisognose di protezione internazionale), i 28 leader europei propongono trite soluzioni per la risoluzione del problema.
La prima si basa sul classico “sostegno finanziario” alla Turchia, ai partner balcanici, al Marocco, (e “in special modo” alla Spagna, scrivono) perché facciano quanto in loro potere per arginare i flussi.
Si pensa poi al trasferimento al “Fondo fiduciario dell’Unione Europea per l’Africa” di ulteriori 500 milioni di euro.
Il “Fondo fiduciario dell’Unione Europea per l’Africa” è uno strumento creato nel 2015 a beneficio dei Paesi africani “che abbracciano le principali rotte migratorie dall’Africa all’Europa”.
L’obiettivo del fondo è quello di aiutare a promuovere la stabilità politica ed economica nelle regioni interessate e contribuire così ad una migliore gestione del fenomeno migratorio.
In altri termini, grazie alle risorse stanziate dall’Europa, si vorrebbero creare più opportunità di lavoro e di istruzione sul territorio, rafforzare lo Stato di diritto, favorire la stabilizzazione delle regioni interessate e promuovere una migliore “governance” del flusso migratorio, già a partire dal continente africano.
Si vorrebbe infine incentivare lo sviluppo delle cosiddette “piattaforme di sbarco regionali”, ovvero dei luoghi di sbarco (per i migranti soccorsi in mare) posti al di fuori del territorio dell’Unione Europea.
Al fine di non violare le normative internazionali sul principio di non respingimento, l’utilizzo di questa opzione dovrebbe essere limitato esclusivamente ai casi di migranti raccolti in acque internazionali da navigli dell’Unione Europea o ai casi di migranti raccolti in acque internazionali o in acque territoriali di Paesi terzi da navigli di Paesi terzi.
Solo in questi casi vi potrebbe infatti essere la possibilità di non far toccare ai migranti il suolo europeo.
Le “piattaforme di sbarco” dovrebbero essere istituite grazie ad accordi tra i paesi terzi, l’UNHCR (L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) e l’IOM (l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) allo scopo di accogliere e assistere le persone bisognose di protezione internazionale.
Coloro che ne avessero diritto, potrebbero aderire ai programmi di reinsediamento disponibili o, in caso contrario, essere reintegrati nei loro Paesi di origine.
Il principale “vantaggio” dato dalle piattaforme di sbarco regionali, secondo la visione di molti, è che con questo approccio i migranti non avrebbero immediato diritto a richiedere protezione internazionale in Unione Europea, sgravando così i Paesi costieri dalla gestione di questo onere e limitando gli accessi sul territorio degli Stati Membri.
Le conclusioni adottate dal Consiglio Europeo nella riunione del 28 giugno 2018, in .pdf (scaricabile):
Conclusioni Consiglio Europeo 28 giugno 2018 - Migrazioni
“The legal and practical feasibility of disembarkation options”, Commissione Europea, 24 Giugno 2018, in .pdf (scaricabile):
Legal and practical feasibility of disembarkation options 24jun2018