Zygmunt Bauman – Retrotopia

La sensazione che attanaglia buona parte dei contemporanei è che il nostro mondo, il mondo della globalizzazione e della deregolamentazione, sia oggi più rassomigliante ad un teatro di guerra, dove le incertezze e la mutevolezza delle regole la fanno da padrone, che ad una pacifica convivenza democratica.

La politica è infatti assillata da un deficit di potere che sembra non avere fine ed i suoi strumenti, di carattere tipicamente locale e autoreferenziale, sembrano non avere più efficacia contro le regole dettate dall’esterno.
Da un lato i governi devono rispondere agli elettori, i quali pretendono che i politici realizzino ciò per cui li hanno votati, ma dall’altro non possono esimersi dal dover far fronte a vincoli e pressioni che giungono dagli attori extra-statuali.
Si assiste cosi smarriti alla sempre più marcata separazione, quasi un divorzio dice Baumann, tra potere e politica, ovvero tra la possibilità di fare le cose e quella di decidere che cosa deve essere fatto.
Questo genera impotenza: lo Stato non riesce sempre ad intervenire dove ritenuto necessario, non riesce a porre riparo alle disuguaglianze e tali situazioni di disagio sociale si traducono spesso in scoramento, paura e diffidenza.
Gran parte delle persone pensa inoltre che il futuro porterà un peggioramento nelle proprie condizioni di vita.

Se le democrazie attuali non riescono a realizzare le aspettative, si va in cerca di qualcosa a cui aggrapparsi e a cui attribuire una funzione salvifica.
Niente stupore quindi se oggi si assiste ad una radicalizzazione generalizzata, a visioni sempre più focalizzate sul locale, sul “proprio” (il “proprio credo religioso”, il “proprio territorio”, la “propria cultura”, la “propria gente”), ad un desiderio di tornare verso una comunità chiusa, rassicurante (le “tribù” le chiama Baumann) dove si crede sia possibile rivivere i fasti passati.
Ci si rivolge indietro con sguardo nostalgico, come se un ritorno ad un mondo perduto fosse l’unica soluzione per trovare sicurezza, lavoro e libertà.
Cinquecento anni dopo che Tommaso Moro diede il nome di Utopia al millenario sogno umano di tornare in paradiso o di instaurare il cielo sulla terra ci troviamo oggi a celebrare un nuovo fenomeno: la Retrotopia, il mito del ritorno al passato, idolatrato per la sua presunta stabilità e affidabilità.
Poco importa se la nostalgia è molto spesso anche “una storia di amore con la propria fantasia”, che non ripropone mai il passato in quanto tale ma in una visione edulcorata.

“Gli aspetti che erodono le speranze riposte nel futuro, accrescono la consapevolezza del passato e instillano nelle persone l’idea di avere bisogno di una tradizione (…) Assediati dal senso di perdita e dai cambiamenti in atto, per non perdere l’orientamento ci aggrappiamo a quel che resta della stabilità”.
In teoria il futuro sarebbe la sfera della libertà mentre il passato dovrebbe essere la sfera dell’immutabile; con questo approccio, invece, il futuro e il passato si sono scambiati i loro punti di vista.

L’approccio retrotopico spinge quindi per un ritorno a comunità chiuse, dove si innalzano muri, si sigillano frontiere, si ha fiducia e speranza solo in se stessi o nel ristretto gruppo di coloro che vengono identificati come i nostri simili.

Ma è davvero questa la soluzione che ci serve per i problemi che il futuro ci prospetta?

Riuscire a tenere lontane le sciagure globali barricandosi in casa propria, nella speranza che questo territorio sia sicuro, non è meno improbabile che pensare di scampare alle conseguenze di una guerra nucleare acquattandosi in un rifugio per i senza tetto, dice Baumann.

La rotta si inverte solo con più integrazione “uscendo dal bunker, andando verso gli altri, superando l’ignoranza che ci fa avere paura per lo straniero, per lo sconosciuto”.
La sfida del momento non è quindi quella di isolarsi e tornare al passato ma quella di progettare un’integrazione generalizzata, fondata sul dialogo e sulla “consapevolezza cosmopolitica”.
Solo così si potrà vivere in sicurezza e libertà in questo nostro nuovo mondo.

Sorprendentemente, ma forse poi non così troppo, chi ha raccolto questa sfida in maniera più decisa sembra essere uno dei pochi che abbia ancora il coraggio di affrontare a viso aperto queste genere di questioni, Papa Francesco: “Se c’è una parola che dobbiamo ripetere fino a stancarci è “dialogo”. La cultura del dialogo implica un autentico apprendistato, un’ascesi che ci aiuta a riconoscere l’altro come interlocutore valido, che ci permette di guardare lo straniero, il migrante, l’appartenente a un’altra cultura come un soggetto da ascoltare, considerato e apprezzato (…) Armiamo la nostra gente con la cultura del dialogo e dell’incontro” (da un suo discorso del  6 maggio 2016).

È forse una delle ultime chiamate per decidere se prenderci per mano o finire insieme in una fossa comune.

 

[Zygmunt Baumann (2017), Retrotopia, Laterza – 15,00 euro]

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