Amnesty International ha presentato lo scorso dicembre 2017 il rapporto “Libia: un oscuro intreccio di collusione”, con lo scopo di far luce su come i migranti che cercano di approdare sulle coste dell’Unione Europea siano quotidianamente vessati ed esposti a palesi violazioni dei loro diritti umani sul territorio libico, nonché per mettere i governi che permettono che questo accada di fronte alle proprie responsabilità.
Dalla caduta del regime di Mu’ammar Gheddafi nel 2011, dopo l’iniziale ribellione delle tribù libiche contro il potere centrale di Tripoli ed il successivo intervento ONU-NATO, le istituzioni libiche si sono sempre più frammentate ed indebolite, squassate dalla lotta intestina tra le varie fazioni in campo, fino a giungere alla odierna situazione che vede l’esistenza di due governi separati che competono per il potere (Tobruk, il governo dei ribelli, e Tripoli, l’esecutivo di unità nazionale riconosciuto dalla comunità internazionale).
In questo vuoto di potere, organizzazioni criminali, trafficanti di uomini, milizie armate sono riuscite a “fare sistema” integrandosi in una rete ben organizzata che ha generato una vera e propria industria del traffico di esseri umani, con hub di riferimento per la partenza di barconi carichi di disperati i tre porti della Libia nord-occidentale di Zuwara, Sabratha e Zawiya.
Secondo le stime dell’ “Organizzazione Internazionale per le Migrazioni”, fino a Settembre 2017 avevano transitato su suolo libico 416.556 migranti e, al momento della redazione del rapporto di Amnesty, si stimava che circa 20.000 persone fossero trattenute nei centri di detenzione libici.
La normativa libica prevede che ogni ingresso o uscita irregolare dal Paese debba essere considerato come un reato: chiunque viene fermato senza avere i documenti in regola (ovviamente anche i soggetti che cercano di attraversare il Mediterraneo e vengono rimandati in Libia) viene quindi posto in stato di detenzione.
Inoltre, i libici riconoscono lo stato di rifugiato solo ad alcune nazionalità (persone provenienti da Eritrea, Etiopia, Somalia, Iraq, Sudan -regione del Darfur- e Siria); tutti gli altri migranti irregolari sono invece arbitrariamente trattati come criminali, indipendentemente dalla loro storia e situazione personale, in palese violazione delle leggi internazionali e della Convenzione di Ginevra del 1951, che peraltro la Libia non ha mai ratificato.
Secondo le testimonianze raccolte, le condizioni di detenzione nei “centri di accoglienza” libici sono disumane: i centri sono cronicamente sovraffollati e carenti dal punto di vista igienico-sanitario, le stanze dove i migranti vengono detenuti sono presidiate da uomini armati, il cibo e l’acqua scarseggiano.
Inoltre, la detenzione è normalmente disposta per un periodo di tempo indefinito, a discrezione dei carcerieri: il sistema giudiziario libico è allo stremo e i tribunali non riescono ad esaminare tutte le istanze presentate; giudici e avvocati, poi, sono spesso minacciati e intimiditi dalle milizie al potere che traggono vantaggio dal traffico di esseri umani.
Come se non bastasse, i migranti sono sottoposti a sistematiche torture e estorsioni.
Amnesty riporta la testimonianza di “Ousman”: “in prigione ci picchiavano spesso. Lo facevano con una rete metallica, arrotolata come un bastone che usavano per colpirmi sulla testa. Sono svenuto, la gente attorno a me pensava fossi morto a causa della quantità di sangue che fuoriusciva dalla mia testa (..) hanno ucciso tante persone, tante..”.
Questo, invece, il tipico meccanismo estorsivo: una volta posto in stato di detenzione, si priva il migrante di tutto quanto possiede, denaro contante, telefono, passaporto e altri effetti personali. A quel punto gli si chiedono più soldi. Se non ne ha, lo si fa mettere in contatto con un faccendiere affinché anticipi dei soldi alle guardie per suo conto; a quel punto il migrante diventa quasi “proprietà” del faccendiere che lo può liberamente sfruttare fino a che il debito non sarà ripagato.
Diversamente, si chiama la famiglia del migrante per farsi versare un riscatto; la tortura mentre il migrante è al telefono con i familiari è uno degli espedienti preferiti, le grida di dolore paiono infatti dimostrare una certa efficacia nello spingere i parenti a compiere tutti gli sforzi possibili pur di riuscire a pagare la somma richiesta.
La Guardia Costiera libica, poi, è stata da tempo infiltrata dalle milizie che imbracciarono le armi nel 2011 e che vennero successivamente “regolarizzate” in questo corpo.
I suoi metodi sono particolarmente opinabili e i suoi fini ben lontani da quelli di un corpo della marina militare.
Sembra che, anche in questo caso, minacce e intimidazioni -sia nei confronti dei migranti che delle ONG- siano all’ordine del giorno.
Molti migranti testimoniano di ricatti e violenze da parte della Guardia Costiera libica che, una volta intercettati i barconi in partenza per l’Italia o Malta, spesso richiede ai migranti soldi, beni personali e tutto quanto di valore posseggono per non riportarli in un centro di detenzione sulla terraferma.
Solo chi ha precedentemente pagato gli ufficiali libici ha diritto a mollare gli ormeggi.
Quanto accaduto il 6 novembre 2017 è balzato poi agli onori della cronaca: la nave Sea Watch 3 stava conducendo un’operazione di salvataggio coordinata dal MRCC (il Centro di Coordinamento del Soccorso Marittimo) di Roma quando la Guardia Costiera libica si è presentata sul luogo delle operazioni.
La Guardia Costiera affianca il gommone carico di migranti in difficoltà e comincia a portarli a bordo, senza alcun coordinamento con la Sea Watch 3; una volta a bordo, la punizione per essere salpati dalle coste libiche senza autorizzazione consiste in intimidazioni generalizzate e qualche frustata con una cima.
Nel mentre, alcuni migranti terrorizzati cominciano a lanciarsi in mare dal ponte della nave; quando un migrante tenta di calarsi dalla murata, la nave libica parte ad alta velocità facendolo cadere in acqua.
Alla fine delle operazioni, 62 migranti verranno sbarcati in Italia, 47 riportati in Libia, cinque saranno i corpi recuperati (incluso quello di un bambino) e 50 i dispersi in mare.
Questo il filmato dell’ingaggio in mare caricato su youtube.
Sappiamo che la priorità politica dell’Unione Europea è quella di ridurre il flusso di migranti diretti verso le proprie coste.
Per questo motivo, sono stati offerti alle autorità libiche accordi di cooperazione, assistenza tecnica e varie forme di sostegno e collaborazione (quali corsi di formazione al personale libico o fornitura di equipaggiamenti, incluse barche) per potenziare le capacità e le strutture della Guardia Costiera affinché il traffico irregolare dei migranti fosse interrotto o quantomeno limitato.
Cosa che sembra avere funzionato: guardando al “Cruscotto statistico giornaliero” del Ministero dell’Interno, gli sbarchi nella seconda metà del 2017 (a partire da Luglio) sono effettivamente crollati rispetto allo stesso periodo del 2016.
Ministero Interno - Cruscotto statistico giornaliero_31-12-2017
Tuttavia, fino a che non saranno implementate nuove modalità di tutela per i rifugiati (quali ad esempio i reinsediamenti), i soggetti che restano bloccati in Libia non avranno accesso ad alcuna forma di protezione internazionale e saranno esposti ad intollerabili abusi e gravi violazioni dei loro diritti umani.
Possiamo accettare che questo accada, pur di non avere nessuno che bussi alla nostra porta?
Il Rapporto “Lybia’s dark web of collusion” di Amnesty International, in pdf (scaricabile):
Libia's dark web of collusion (Amnesty)