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Grecia e diritti umani, una questione aperta – Caso “M.S.S. contro Belgio e Grecia”

La Grecia come la Libia? Non esattamente.
Tuttavia, le pesanti lacune nel sistema di accoglienza greco, i rischi di maltrattamenti e le ripetute violazioni di diritti umani hanno indotto la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo a sanzionare (caso numero 30696/09) la Grecia per violazione dei principi espressi nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo ed il Belgio per aver permesso che ciò sia accaduto.

Il richiedente (“M.S.S.”), un afghano giunto in Unione Europea dopo aver attraversato le frontiere di Iran e Turchia, presenta – nel Febbraio 2009 – domanda di protezione internazionale in Belgio.
Il richiedente riporta di essere riuscito a lasciare l’Afghanistan per via aerea con l’aiuto di un trafficante e di avere pagato per il viaggio circa 12.000 dollari americani.
Racconta inoltre di aver deciso di presentare domanda in Belgio poiché aveva avuto modo di confrontarsi in Afghanistan con alcuni soldati NATO di nazionalità belga che, riporta, “si erano comportati cordialmente con lui”: aveva infatti lavorato come interprete per le truppe aviotrasportate della coalizione internazionale di stanza a Kabul.
Proprio per tale attività era ora ricercato dai Talebani che già avevano cercato di ucciderlo in patria prima della sua fuga.
Prima di giungere sul territorio belga, tuttavia, il richiedente era approdato in Grecia dove gli erano state rilevate le impronte digitali a Mitilene.

Una volta che le autorità belghe cominciano ad esaminare il suo caso, si rendono conto che il luogo di primo approdo in Unione Europea era stato proprio la Grecia.
Secondo la normativa europea (ai tempi dello svolgersi dei fatti era in vigore il Regolamento n. 343/2003, cosiddetto “Dublino II”), lo Stato Membro dell’Unione competente a esaminare una domanda di protezione internazionale è – come regola generale per chi abbia varcato illegalmente la frontiera – quello di primo ingresso, ovvero la Grecia.
Il Belgio richiede quindi alla Grecia di assumere la competenza del caso; trascorsi i due mesi canonici per la decisione finale sulla richiesta di presa in carico senza aver ricevuto alcuna risposta dalla controparte greca, le autorità belghe decidono per il trasferimento del richiedente, interpretando l’inerzia greca come un silenzio assenso.
Il Belgio, nonostante l’UNHCR (l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) avesse inviato loro una lettera che evidenziava le deficienze greche nel sistema di accoglienza e gestione delle domande di asilo dei migranti e che raccomandava -di conseguenza- la sospensione del trasferimento, non ritiene di dover applicare al caso specifico la cosiddetta “clausola di sovranità” che prevede deroghe alla regola generale della competenza nel caso in cui si abbiano fondati motivi per ritenere che lo Stato Membro designato come competente manifesti “carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo (..), che implichino il rischio di un trattamento inumano o degradante“.

Il Belgio non ritiene che vi sia pericolo di violazione dei diritti umani da parte greca né identifica carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza; non ravvisa insomma alcuna ragione per sostituirsi alla Grecia come Stato competente e, il 15 giugno 2009, trasferisce il richiedente in Grecia.

Non appena arrivato, il richiedente viene posto in stato di detenzione in una struttura adiacente all’aeroporto, rinchiuso in uno spazio angusto con altri venti detenuti, senza possibilità di accedere ai servizi igienici se non a discrezione delle guardie, con un lurido materasso posato sul pavimento come giaciglio.
Dopo tre giorni in cella gli viene rilasciata la cosiddetta “carta rosa” (documento fornito ai richiedenti asilo in Grecia) con l’invito a presentarsi negli uffici della polizia entro due giorni per la formalizzazione della domanda di protezione internazionale, cosa che il richiedente non fa.
Non avendo un indirizzo dove risiedere, il richiedente vive in un parco nel centro di Atene.
Nessuno lo informa in merito a possibili alloggi o soluzioni alternative dove trascorrere la notte né gli fornisce alcuna forma di sussistenza: non essendosi presentato al primo appuntamento con la polizia greca, pare non vi siano altre occasioni formali per essere ascoltato e assistito.

Il 1 agosto 2009 il richiedente tenta la fuga e viene arrestato all’aeroporto di Atene con un falso documento bulgaro.
Gli viene poi rinnovata la “carta rosa” con periodicità semestrale, fino a che le autorità programmano una audizione per esaminare il suo caso (siamo al 2 luglio 2010).
Purtroppo l’annuncio dell’audizione è solo in greco, senza alcuna traduzione in una lingua comprensibile al richiedente: non comprendendone il contenuto “M.S.S.” non si presenta.
Il 1 settembre 2010, disperato, il richiedente tenta ancora la fuga in Italia dove, aveva sentito dire, le condizioni di accoglienza sono migliori, ma viene ancora fermato dalla polizia greca e condotto al confine turco.
Qui rischia davvero l’espulsione ma viene salvato dalla presenza di poliziotti turchi che pattugliavano il confine proprio per reprimere la pratica delle espulsioni unilaterali sul loro territorio, pessima e ricorrente abitudine greca.

Il richiedente, in pendenza di una decisione in merito alla sua domanda di protezione internazionale, teme di poter essere rimpatriato in Afghanistan dove i Talebani lo stanno ancora cercando.

Decide quindi di adire la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

Le doglianze nei confronti della Grecia

Il richiedente lamenta di avere subito “trattamenti inumani e degradanti” (a norma dell’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo) all’aeroporto di Atene, dove era stato posto in stato di detenzione, e durante il suo periodo di soggiorno in Grecia, per lo stato di estrema povertà cui era stato costretto a vivere a causa della mancanza di un sistema di accoglienza adeguato.
Rammentiamo che, nell’interpretazione della Corte, un trattamento “inumano” è un trattamento “premeditato, protratto per ore, continuato e che causi intensa sofferenza fisica o mentale o danni personali” mentre un trattamento “degradante” è un trattamento “umiliante, che manifesti mancanza di rispetto o svilisca la dignità umana, anche ingenerando sentimenti di paura, angoscia o sottomissione che possano piegare la resistenza morale o fisica di un individuo”.

Il richiedente lamenta inoltre la mancanza di “mezzi di ricorso interni effettivi” (a norma dell’articolo 13 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo) contro le decisioni delle autorità greche nonché la violazione dell’articolo 2 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, essendo stato esposto al rischio di respingimento in Afghanistan senza alcun reale esame di merito della sua domanda di protezione internazionale.

La Corte accoglie tutte le doglianze e condanna la Grecia al pagamento di 5.725 euro al richiedente.

La Corte sottolinea infatti come i rapporti stilati dalle organizzazioni non governative (ONG) e da altre organizzazioni nazionali e internazionali rimarchino da tempo le deplorevoli condizioni cui sono sottoposti i richiedenti asilo in Grecia.
Essi vengono normalmente posti in stato di detenzione al loro arrivo e la detenzione può durare da pochi giorni a qualche mese; diversi testimoni riportano inoltre che non viene normalmente fornita loro alcuna giustificazione per tale estrema misura.
I centri di detenzione sono sovraffollati, sporchi, con pochi posti a disposizione, con strutture sanitarie totalmente inadeguate. Inoltre, moltissime persone intervistate si sono lamentate degli insulti, particolarmente di quelli a sfondo razziale, e delle percosse ricevute dalla polizia greca.

Pare inoltre che ai migranti non venga fornita nessuna informazione riguardo alle modalità per trovare un alloggio per il tempo necessario all’esame della loro domanda di protezione internazionale: in particolare diversi migranti intervistati nei rapporti stilati dalle organizzazioni non governative (ONG) e da altre organizzazioni nazionali e internazionali lamentano come nessuno li avesse debitamente informati del fatto che il prerequisito per far sì che la autorità si prodigassero per la ricerca di un alloggio fosse quello di informarle dello stato di indigenza al momento del primo colloquio; anzi, diverse testimonianze riportano proprio come fosse invece pratica comune della polizia greca quella di far credere ai migranti che l’avere un alloggio fosse fondamentale per procedere all’esame della loro domanda, scoraggiando così i senza fissa dimora dal presentarla.
Il risultato è che queste persone, senza legami familiari in Grecia né soldi per pagarsi un alloggio, finiscono a dormire per strada, in uno stato permanente di disagio, col costante timore di essere derubati o aggrediti.

Anche la “carta rosa” sembra non dare alcun vantaggio pratico dal punto di vista del sostegno ricevuto dallo Stato (non fornisce vie preferenziali per la ricerca di una sistemazione dignitosa) e permangono sostanziali ostacoli burocratici per la ricerca di un lavoro.
In aggiunta, le autorità sanitarie greche sembrano non essere a conoscenza dei loro obblighi di dover fornire assistenza medica gratuita ai migranti.

I succitati rapporti riportano inoltre come ad alcuni soggetti appena approdati in Grecia sia stato immediatamente notificato un ordine di espulsione (in greco) senza nemmeno avere provveduto ad informare i migranti del loro diritto di poter presentare domanda di protezione internazionale o di poter contattare un avvocato per tale scopo.
In generale, comunque, il limite massimo di tre giorni fissato dalla normativa greca per presentare la domanda, è considerato troppo breve dalla Corte, anche alla luce del grande afflusso di migranti sperimentato. Testimoni raccontano di migliaia di persone in fila agli uffici della polizia greca nel giorno convenuto per la presentazione della domanda, a fronte di sole 300-350 domande evase.
In aggiunta, mancano interpreti e le audizioni sono svolte dal personale assegnato in maniera superficiale.

I tempi per il ricorso al Tribunale Amministrativo greco (“Supreme Administrative Court”) sono poi eccessivamente lunghi e, ancora più rilevante, la presentazione del ricorso non ha effetto sospensivo del provvedimento di rigetto della domanda di protezione internazionale, mettendo così i migranti a rischio di essere rimandati nei loro Paesi di origine prima di una decisione definitiva.
Anche coloro i quali abbiano ricevuto un diniego (sempre in greco) e non abbiano presentato ricorso nei tempi stabiliti sono passibili di espulsione.

Le doglianze nei confronti del Belgio

Il richiedente lamenta poi violazioni di diritti umani anche nei confronti del Belgio: il Belgio era a conoscenza delle lacune del sistema greco e, disponendo il trasferimento del migrante, non ha valutato adeguatamente il rischio cui il migrante poteva andare incontro, sia dal punto di vista della possibilità di essere esposto a “trattamenti inumani e degradanti” sia per il rischio di respingimento arbitrario in Afghanistan.

Inoltre, il richiedente sottolinea la mancanza di “mezzi di ricorso effettivi” interni (a norma dell’articolo 13 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo) contro le decisioni delle autorità belghe: in Belgio, un eventuale ricorso contro un provvedimento di espulsione non sospende l’efficacia del provvedimento e, comunque, in appello il richiedente -per riuscire ad invalidare il provvedimento di espulsione -deve produrre alla Corte “prove concrete della irreparabile natura del danno” che potrebbe risultare dalla presunta violazione dell’articolo 3 in caso di espulsione (ovvero “prove concrete della irreparabile natura del danno” che potrebbe risultare dai “trattamenti inumani e degradanti” subiti nel Paese di respingimento diretto o indiretto), cosa particolarmente ostica.

Anche in questo caso, la Corte accoglie tutte le doglianze e condanna il Belgio al pagamento di 32.250 euro al richiedente.

Gli Stati Membri devono infatti garantire che lo “Stato competente” (ex Regolamento n. 343/2003 – “Dublino II”) fornisca sufficienti garanzie affinché un richiedente asilo non sia arbitrariamente respinto (direttamente o indirettamente, in questo caso in Afghanistan) in Paesi “in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche” [Articolo 33 – “Convenzione relativa allo status dei rifugiati” (cosiddetta Convenzione di Ginevra) del 1951].

 

La sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo datata 21 gennaio 2011, Grande Camera, Caso “M.S.S. contro Belgio e Grecia” numero 30696/09, in pdf (scaricabile):

CEDU, Grande Camera, Caso “M.S.S. contro Belgio e Grecia” n. 3069609

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