Richard Sennett – L’uomo flessibile

Quali sono le conseguenze del “nuovo capitalismo” sulla nostra vita personale?

I nostri genitori sapevano con esattezza quando sarebbero andati in pensione e quanti soldi avrebbero avuto in quel momento.
La loro vita, seppur ingabbiata in una struttura burocratica quasi inscalfibile, era una narrazione lineare e rassicurante: una carriera condotta passo dopo passo, una casa di proprietà dove programmare di vivere per sempre, un’azienda a cui essere fedeli.

Oggi invece la situazione è radicalmente cambiata.

I valori imperanti sono diventati l’essere aperti al cambiamento, l’essere flessibili, l’assumersi dei rischi.
Il dinamismo è ormai un credo e il concetto di “lungo termine” è stato quasi bandito: affidabilità, dedizione e tensione verso uno scopo sono tutte virtù sempre più rare tra coloro che si aggirano nel mondo del lavoro.
Non solo, il fatto di non volersi assumere dei rischi o di non voler modificare la propria situazione lavorativa o personale a intervalli regolari viene quasi visto dai più come un indicatore di fallimento: la stabilità è quasi una morte in vita.

In questo nuovo mondo l’economia è continuamente ristrutturata e la routine è abolita.
Le aziende sono state resi luoghi dove il dipendente è trattato come fosse liberamente eliminabile in ogni momento e dove l’obsolescenza del personale viene precocemente diagnosticata: “i datori di lavoro pensano che chi ha più di 40 anni non riesca più a pensare e passati i 50 sono convinti che tu sia bruciato” testimonia un alto funzionario di Wall Street.
Le iniziative produttive vengono chiuse o abbandonate e i lavoratori (anche di buon livello) vengono lasciati a casa solo perché l’azienda deve dimostrare al mercato di essere capace di trasformarsi e di essere flessibile.
Anche i concetti commerciali, la progettazione dei prodotti, la disponibilità di capitale e ogni genere di informazione hanno un arco di vita potenziale molto più ridotto rispetto a prima.

Stando così le cose, il distacco e la cooperazione superficiale da parte del dipendente sono la reazione più spontanea, nonché il comportamento più adatto alla “sopravvivenza” rispetto alla lealtà e al servizio alla causa.
Diventa infatti assurdo impegnarsi a lungo e a fondo per un datore di lavoro che cambia faccia così frequentemente e la cui unica idea è quella di massimizzare i risultati di breve termine.
Fiducia, lealtà e dedizione reciproca sono state quindi corrose.
Aleggia inoltre sui lavoratori lo spettro di non riuscire a costruirsi attraverso il proprio lavoro, di non contare come persona, di non essere in fondo necessari.

Tutto, oggigiorno, si basa sul breve termine.
Il nuovo ordine nega che lo scorrere del tempo necessario ad accumulare capacità faccia guadagnare a una persona posizioni e diritti, cioè “valore”: tali pretese sono considerate un altro lato negativo del vecchio sistema burocratico, in cui i diritti di anzianità congelavano le istituzioni.
Si riparte sempre da zero e bisogna dimostrare le proprie qualità ogni giorno.

Ai risultati e al sapere “tecnico” si dà inoltre ormai poca importanza.
Per riuscire a fare carriera è paradossalmente molto più importante l’abilità di far sì che non ci “rimanga attaccato” qualcosa (ovvero di riuscire ad addossare ad altri la responsabilità di eventuali fallimenti) piuttosto che di essere esperti in qualche campo del sapere.

La moderna etica lavorativa si concentra poi sul lavoro di gruppo: esalta la ricettività nel confronti degli altri, richiede soft skills come sapere ascoltare ed essere collaborativi, adattabili alle circostanze. L’autorità è bandita.
E così funziona anche per i ruoli dirigenziali.
Pochi capi ormai dicono “sono io ad avere il potere e a sapere cosa occorre fare, seguitemi“; le tecniche dirigenziali moderne vedono piuttosto il capo come un allenatore, un motivatore anzi che un esperto, un “collega leader” e non un “padrone”.
Cosi facendo, però, buona parte della responsabilità in caso di sconfitta ricade sui giocatori, ovvero sui dipendenti.

Nessuno propone di tornare alla claustrofobica e rigidamente organizzata vecchia organizzazione del lavoro” dice Sennet.
Tuttavia il nostro problema è adesso come organizzare le storie della nostra vita all’interno di un capitalismo che ci prepara solo ad andare alla deriva”.

 

[Richard Sennett (1999), L’uomo flessibile, Feltrinelli – 8,90 euro]

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