L’interessante articolo sugli strumenti derivati di Luca Piana apparso su L’Espresso del 02 Luglio 2017 aiuta a comprendere dove finiscano (purtroppo) parte degli euro raccolti tramite l’imposizione fiscale.
Ma cosa sono i “derivati”?
I derivati sono strumenti finanziari che prevedono di erogare determinate prestazioni a fronte dell’andamento di una attività collegata, definita “sottostante”.
Le prestazioni dello strumento sottoscritto “derivano” quindi dall’andamento di specifici fattori individuati contrattualmente, ad esempio un tasso di interesse o un indice di borsa.
Ve ne sono di molteplici tipi e di complessità differente.
Assumendo come criterio di classificazione la tipologia degli strumenti finanziari, possiamo identificare almeno tre macroclassi di contratti: contratti swap, contratti forward/futures (ovvero i contratti a termine) e i contratti di opzione, divisi a loro volta in svariate sottoclassi.
Alcuni hanno finalità di copertura (tecnicamente detta anche di hedging), come ad esempio gli swap sui tassi, altri possono avere invece finalità speculative.
L’azione dello Stato dovrebbe sempre essere ispirata alla massima trasparenza e alla tutela del bene e del patrimonio pubblico. Lo strumento derivato di elezione dello Stato dovrebbe quindi essere quello di copertura, bandendo dalle possibili opzioni percorribili i derivati con finalità speculative o di arbitraggio.
Teniamo presente che, quando si parla di strumenti derivati, il livello di complessità e di variabili in gioco è estremamente elevato.
Si comprende bene quindi come la professionalità e l’accortezza del personale pubblico che viene incaricato di valutare e quindi stipulare i contratti derivati debba essere massima: al fine di poter decidere lucidamente sulla opportunità di concludere o meno un contratto, un amministratore pubblico deve avere una visione chiara e precisa dello strumento derivato che intende sottoscrivere, dei rischi connessi, dei suoi effetti sulle posizioni di debito e sul bilancio in generale, sia al momento della stipula che durante tutta la vita dello strumento finanziario.
Anche se ora l’attenzione delle istituzioni sembra molto maggiore e tali contratti non vengono più stipulati con leggerezza, gli effetti degli accordi passati si sentono e si sentiranno ancora.
Secondo l’audizione alla Camera dei Deputati “Indagine conoscitiva sugli strumenti finanziari derivati” del 10 Febbraio 2015, dal punto di vista dello Stato centrale, a partire dal 2005 le operazioni in derivati devono essere approvate e stipulate dal Direttore della Direzione II del Tesoro, con l’obbligo di darne comunicazione al Gabinetto del Ministro ed al Direttore Generale del Tesoro al fine di verificare che le indicazioni strategiche per la gestione del debito pubblico siano rispettate.
Per quanto concerne gli enti locali, invece, dopo diversi interventi normativi mirati alla regolamentazione del fenomeno messi in pratica all’inizio degli anni 2000, si è deciso il blocco alla stipula di nuove operazioni derivate.
A partire dalla legge di stabilità per il 2014, infatti, l’articolo 62 del decreto legge 112 del 2008 è stato definitivamente riformulato vietando alle amministrazioni territoriali di stipulare nuovi contratti derivati, di rinegoziare quelli esistenti (anche se in questo caso si applicano diverse deroghe) e di sottoscrivere contratti di finanziamento che includono componenti derivate.
Prendiamo ad esempio la classe “contratti swap” e due delle sue sottoclassi, l’interest rate swap e il currency swap, citati nel suddetto articolo de L’Espresso.
Questi sono anche le tipologie di derivati più diffusamente stipulati dallo Stato.
Come funzionano questi strumenti?
L’ “interest rate swap” ha la finalità di tutelare il soggetto che lo sottoscrive dal rischio di aumenti del tasso di interesse.
Nella sua forma più semplice, prevede uno scambio finanziario (“regolamento del differenziale”) sulla base di un importo nominale iniziale, che può essere ad esempio l’importo di un prestito precedentemente stipulato.
Vediamo meglio come funziona.
Ipotizziamo di essere nel 2003: un Ente Locale (diciamo un Comune) si finanzia con un prestito di 200.000 euro presso la Cassa Depositi e Prestiti.
Il Comune pagherà un tasso di interesse variabile sul prestito pari al tasso Euribor (il tasso di riferimento interbancario di offerta in euro), che nel 2003 poteva essere pari al 2%, più spread per tutta la durata del piano di ammortamento, che assumiamo essere di un anno.
Il Comune però prevede che i tassi di interesse si alzeranno, ovvero ritiene che l’Euribor nell’anno del prestito incrementerà il suo valore.
Se questo dovesse davvero accadere, gli interessi da versare sul prestito contratto saranno maggiori: il Comune decide quindi di coprirsi stipulando con un soggetto terzo (es. una banca) un derivato interest rate swap.
Il contratto prevede che le parti fissino un tasso di interesse soglia (ad esempio proprio il 2%) da prendersi come riferimento.
Se l’Euribor sarà superiore a quel tasso di interesse soglia, la banca pagherà al Comune la differenza tra quanto il Comune avrebbe dovuto pagare applicando il tasso del 2% e tra quanto deve effettivamente pagare in funzione del nuovo valore dell’Euribor, tutelandolo cosi dal rischio di aumento dell’interesse.
In altre parole, il Comune deve comunque versare alla Cassa Depositi e Prestiti un interesse maggiore dovuto all’aumento dell’Euribor ma la differenza tra questo maggiore interesse e quanto concordato come interesse soglia la ottiene dal derivato.
Al contrario, se l’Euribor dovesse scendere, sarà il Comune a pagare la differenza di tasso alla banca, smarrendo per strada il mancato guadagno che sarebbe derivato da un Euribor più basso.
Come si nota, è una specie di “scommessa calcolata” basata sul fatto che l’assunzione iniziale del Comune sia vera.
Il “currency swap” consiste invece in una vendita a pronti (quindi, immediata) di una valuta, con contestuale riacquisto a termine, al fine di minimizzare eventuali fluttuazioni svantaggiose del tasso di cambio.
Assumiamo che il Tesoro si sia finanziato con una emissione obbligazionaria di 500.000 sterline sul mercato inglese, remunerata a un tasso fisso pari al 2%, con pagamento in unica soluzione alla scadenza (1 anno).
Il Tesoro, però, opera normalmente in euro.
L’ammontare da versare in euro al termine del prestito potrebbe quindi variare in funzione delle possibili fluttuazioni del tasso di cambio durante l’anno di vigenza del prestito.
Il Tesoro nutrirà ovviamente la speranza della permanenza di un euro forte rispetto alla sterlina per l’anno del prestito; potrà tuttavia neutralizzare le conseguenze derivanti dall’eventualità che ciò non accada stipulando uno swap che gli consenta di annullare o limitare gli svantaggi di un eventuale tasso di cambio svantaggioso.
Spieghiamoci meglio.
Ipotizziamo che al momento dell’emissione il cambio EUR/GBP sia di 0,90.
A queste condizioni, il corrispettivo che il Tesoro dovrà sborsare sul capitale alla scadenza è pari a circa 550.000 euro.
Tuttavia, se il cambio dovesse scendere (ad esempio 0,80) il Tesoro perderebbe dei soldi rispetto allo scenario iniziale: pagherebbe ai risparmiatori inglesi sempre la stessa cifra in sterline, ovviamente, ma in euro l’ammontare da impegnare sarebbe maggiore (circa 600.000 euro).
Preoccupato dal fatto che il cambio possa scendere, il Tesoro stipula quindi con una banca un currency swap euro contro sterlina sul totale (il “nozionale”) di 500.000 sterline.
Assumendo un tasso concordato pari a 0,90, il Tesoro otterrà subito il corripettivo del nozionale in euro (550.000 euro) più un ammontare fisso per la banca, che come intermediario richiede ovviamente una tariffa.
Alla scadenza del contratto di currency swap, le parti compiranno un’operazione di scambio delle valute di segno opposto a quella iniziale, sulla base del tasso di cambio utilizzato alla data di inizio del contratto (pari a 0,90) senza tenere conto delle eventuali variazioni del cambio intervenute successivamente.
Ciò significa che, trascorso un anno, il Tesoro riceverà le 500.000 sterline per ripagare il prestito, avendo versato solo i 550.000 euro inizialmente considerati col tasso di cambio di 0,90.
È evidente che se il tasso di cambio EUR/GBP fosse davvero sceso a 0,80 durante il periodo del prestito, il Tesoro avrebbe vinto la sua “scommessa”, avendo risparmiato circa 50.000 euro grazie allo swap.
Se il tasso di cambio avesse invece favorito l’euro sulla sterlina, il Tesoro avrebbe smarrito per strada il mancato guadagno derivante da un tasso di cambio più basso in quanto, rischiando, avrebbe potuto impegnare meno euro a fronte delle 500.000 sterline ricevute.
Nella realtà, tuttavia, in presenza di più cedole da versarsi durante la vita del titolo, lo scambio di flussi non si sarebbe attuato solo all’inizio e alla fine del contratto (dove, come visto, vi è uno scambio reciproco di capitale iniziale in due valute diverse) ma anche durante l’esistenza del contratto stesso, tramite un ulteriore flusso di pagamenti sulla base di tassi di interesse computati sui due capitali iniziali (ad esempio, con la finalità sostituire il tasso fisso del prestito obbligazionario da pagarsi sulla sterlina con altro tasso, fisso o variabile sull’euro).
Fin qui, comunque, niente di particolarmente sconvolgente.
La cosa invece si complica quando lo Stato, come dice L’Espresso, aggiunge clausole ai contratti base con finalità, diciamo cosi, più speculative.
Forse perché spinto a questa scelta dal potere negoziale della banca/intermediario, forse per altre ragioni.
Una di queste clausole aggiuntive è la cosiddetta “call swaption“, un contratto di opzione che offre la possibilità di poter attivare un interest rate swap, dietro il pagamento di un premio iniziale e al verificarsi di determinate condizioni pattuite.
Rifacendosi all’esempio precedente dell’ interest rate swap stipulato dal Comune per proteggersi da fluttuazioni dei tassi di interesse , ci rammentiamo che la banca avrebbe “perso” se l’Euribor fosse salito sopra al 2%.
Stipulando una call swaption, le parti concordano che a partire dal raggiungimento di una ulteriore soglia del tasso di interesse (magari il 3%), la banca potrà far partire un ulteriore interest rate swap, a condizioni prefissate, per mitigare la perdita.
È evidente che la differenza in termini di convenienza o meno dello strumento la fanno queste “condizioni prefissate”, che possono contenere pericolose leve o moltiplicatori dei parametri finanziari capaci di ritorcersi contro la controparte (nel nostro esempio il Comune) se non ben valutate.
Oppure, se concesso contrattualmente, la banca potrebbe avere il diritto di recedere dal contratto al raggiungimento di certe soglie o parametri concordati, richiedendo così immediatamente il valore di mercato degli strumenti sottoscritti, a condizioni presumibilmente vantaggiose per l’istituto di credito.
Diversamente, potrebbe essere il Tesoro a chiedere di rinegoziare alcuni parametri dei contratti in essere, sottostando così alle clausole capestro o alle penali previste in questi casi.
I tre casi menzionati sono proprio quanto è successo all’Italia, che deve ora far fronte ad un saldo negativo di interessi da versarsi agli istituti di credito/intermediari pari a 13,7 miliardi di euro (per il periodo 2013-2016), secondo i dati forniti da L’Espresso.
Pare inoltre che il valore di mercato degli strumenti possa esporre lo Stato a perdite potenziali anche maggiori.
La questione è adesso in mano alla Corte dei Conti per accertare fatti ed eventuali responsabilità da danni erariali a carico dei funzionari che autorizzarono queste operazioni.
Staremo a vedere.