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Il principio di non respingimento – La sentenza “Hirsi Jamaa e altri contro Italia”, 23 febbraio 2012

Il “principio di non respingimento” è definito nella “Convenzione relativa allo status dei rifugiati” (cosiddetta Convenzione di Ginevra) del 1951, ratificata dall’Italia sia nella sua versione originaria sia in quella emendata del 1967.
All’articolo 33 di detta Convenzione si riporta: “nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche“, a meno che il rifugiato in questione possa costituire una minaccia per la collettività o un pericolo per la sicurezza nazionale (in quanto, ad esempio, abbia già scontato una condanna definitiva per crimini o delitti particolarmente gravi).
Come sottolineato anche dall’ Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), tale principio è il necessario complemento del diritto di cercare asilo garantito dall’art. 14 della “Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo” ed è ormai ampiamente riconosciuto come norma consuetudinaria del diritto internazionale, vincolante per tutti gli Stati.
Non bastasse, anche la “Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea” ribadisce che “nessuno può essere allontanato, espulso o estradato verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti“, vietando quindi espressamente agli Stati di respingere (direttamente o indirettamente) persone verso Paesi dove possano correre un rischio di subire tortura o pene o trattamenti inumani e degradanti.
Il medesimo principio è richiamato nel Regolamento 562/2006, dove si afferma che le regole definite per Schengen si applicano a chiunque attraversi le frontiere interne o esterne di uno Stato membro senza, tuttavia, “pregiudizio (..) dei diritti dei rifugiati e di coloro che richiedono protezione internazionale, in particolare per quanto concerne il non respingimento ” e in molte altre norme e linee guida internazionali.

La sentenza “Hirsi Jamaa e altri contro Italia”

Nel caso in esame, undici somali e tredici eritrei facevano parte di un gruppo di circa duecento persone che nel 2009 lasciò la costa libica a bordo di tre barconi.
I barconi vennero intercettati dalla Guardia di Finanza e dalla Guardia costiera a sud di Lampedusa, nella zona SAR (Search and Rescue) di competenza maltese; gli occupanti vennero quindi trasbordati sulla nave italiana, per poi essere riportati indietro e riconsegnati alle autorità libiche, in esecuzione degli accordi bilaterali firmati poco tempo prima (il famoso “Trattato di amicizia” tra Italia e Libia, firmato da Berlusconi e Gheddafi il 30 agosto 2008).

I ventiquattro migranti (in realtà ventidue, perché due di loro persero purtroppo la vita in “circostanze sconosciute” dopo l’accaduto) adirono la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo il 26 Maggio 2009 lamentando:
– la violazione dell’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) [“nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti“], perché col respingimento disposto a loro carico sarebbero stati  esposti al rischio di subire trattamenti inumani e degradanti in Libia e nei loro paesi di origine, in caso la Libia avesse deciso di rimpatriarli.
Asserivano inoltre che il respingimento era stato del tutto arbitrario, non avendo ricevuto alcuna indicazione dall’equipaggio italiano su quale fosse la loro destinazione finale (pensavano infatti di essere ricondotti a un porto italiano e non in Libia) e che nessuna assistenza legale era stata offerta per la loro identificazione, valutazione dei loro casi personali e gestione di eventuali richieste di asilo;
– la violazione dell’articolo 4 del Protocollo 4 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) [“le espulsioni collettive di stranieri sono vietate“], in quanto – appunto- oggetto di una espulsione collettiva;
– la violazione dell’articolo 13 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) [“ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto ad un ricorso effettivo davanti ad un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali“], perché privati di ogni effettiva possibilità di appellarsi contro il loro ritorno in Libia.
A bordo della nave italiana non c’erano infatti né interpreti né consulenti legali e ai ricorrenti non fu data una possibilità effettiva di ricorso contro la decisione italiana.

La Corte accoglie tutti i punti e condanna l’Italia all’unanimità.

Sebbene gli Stati abbiano il diritto di controllare (e vietare) l’ingresso sul loro territorio di soggetti irregolari, le misure di allontanamento non sono consentite quando vi siano motivi seri ed accertati per ritenere che il soggetto corra il rischio reale, nel Paese di destinazione, di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti (principio di non respingimento).
La Corte considera che tali motivi sussistano e ritiene l’Italia responsabile di una violazione dell’articolo 3 CEDU.
Inoltre la Corte considera che i soggetti respinti sottostavano, de jure e de facto, all’effettiva autorità e controllo dello Stato Italiano (implicandone la diretta responsabilità), perché i ricorrenti erano stati intercettati da una nave battente bandiera italiana, viaggiavano su di essa e non avevano alcuna possibilità di deviare dalla rotta unilateralmente decisa.
Anche la scelta del respingimento in Libia viene censurata: la Libia è infatti priva di una legge sul diritto di asilo e priva di adeguate garanzie legali per i rifugiati. Le autorità libiche non fanno differenza tra lo stato di rifugiato, quello di richiedente asilo o altro tipo di migrante, trattando tutti allo stesso modo e rimpatriando i migranti nei loro Paesi di origine, incuranti del rischio di violazione dei diritti umani cui potrebbero andare incontro. Inoltre, le condizioni detentive in Libia sono deplorevoli come documentato anche da associazioni umanitarie presenti sul territorio.
La Corte ritiene infine che i ricorrenti siano stati privati di ogni via di ricorso atta a contestare l’allontanamento e ad ottenere un esame indipendente e rigoroso della pratica prima dell’esecuzione dell’allontanamento.

Come condanna, la Corte dispone un risarcimento di 15.000 euro per ogni migrante (per un totale di 330.000 euro) più 1575,74 euro per spese processuali.

Gli ultimi fatti di cronaca

Alla luce di quanto sopra, come possiamo inquadrare l’accordo appena sottoscritto dal governo Gentiloni con la Libia, che “appalta” -diciamo cosi – i respingimenti a uno Stato terzo non aderente alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati?
Non possiamo respingerli noi perché altrimenti verremmo sanzionati (come accadde nel 2012), facciamolo allora fare agli altri, non importa a quale prezzo.
Formalmente l’operazione si definisce come supporto dell’Italia (e dell’Unione Europea) alla Guardia Costiera libica, affinché le autorità libiche possano intercettare le barche cariche di migranti partite irregolarmente dai loro porti e possano quindi ricondurle nei centri di detenzione.
Nella pratica, resta il dubbio che si sia deciso di volgere lo sguardo altrove, infischiandosene del rispetto delle convenzioni internazionali sui diritti umani e il diritto di asilo, purché il flusso di disperati sulle coste europee diminuisca.
Una specie di remake dell’accordo UE-Erdogan del 2016, questa volta senza l’esborso di sei miliardi di euro.

Sul Fatto Quotidiano del 15 agosto 2017 è riportata l’intervista di Agnès Callamard, relatrice speciale dell’UNHCR: secondo la Callamard i nuovi accordi con la Libia “potrebbero portare a più morti in mare, e la perdita di vite, essendo prevedibile ed evitabile, costituirebbe una violazione degli obblighi dell’Italia in materia di diritti umani“. E ancora: “l’Italia, la Commissione Ue e i Paesi dell’Ue considerano il rischio e la realtà delle morti in mare un prezzo da pagare per dissuadere i migranti e rifugiati”  (..) l’appoggio da parte dell’Unione Europea a questa operazione “non si può fornire senza garanzie dimostrabili che i diritti dei migranti intercettati vengano rispettati e che i migranti stessi vengano protetti da violazioni e abusi da parte di agenti statali, milizie armate e trafficanti“.

Corte UE - Hirsi Jamaa e altri vs Italia - Grande Camera (23feb2012)
  Convenzione di Ginevra del 1951

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