Negli ultimi mesi, non è certo difficoltoso reperire – sia sul web che sulla carta stampata – articoli sull’argomento “migranti”.
Con tale mole di informazioni e di input differenti, è sempre più difficile provare ad inquadrare la questione in maniera lucida e distaccata.
Proviamo a porci alcuni quesiti preliminari.
Quali sono le normative che regolano l’assistenza e il soccorso in mare? È possibile volgere lo sguardo in altra direzione, come alcuni sembrano suggerire?
Alla materia si applicano Convenzioni internazionali, adottate sotto l’egida dell’IMO (Organizzazione Marittima Internazionale) e ratificate dall’Italia, nonché il codice della navigazione italiano.
Tra di esse meritano una particolare menzione:
– La “Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare” (SOLAS – Safety Of Life at Sea), firmata a Londra nel 1974 (e successivi emendamenti);
– La “Convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo” (SAR – Search and Rescue) firmata ad Amburgo (Germania) il 27 Aprile 1979 (e successivi emendamenti);
– La “Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare” (UNCLOS – United Nations Convention on the Law of the Sea), sottoscritta a Montego Bay (Giamaica) il 10 dicembre 1982;
– Le “Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare”, Risoluzione MSC.167(78), adottata nel maggio 2004.
A norma di tali Convenzioni, e per quanto attiene al soccorso in mare, vi sono obblighi sia per quanto concerne i comandanti delle navi che per gli Stati costieri.
L’obbligo di tutelare la vita umana è ovviamente prioritario rispetto ai successivi controlli inerenti all’ immigrazione clandestina, ovviamente sempre legittimi.
Il comandante di una nave, sia civile che militare, che si imbatta in un’altra in difficoltà ha quindi l’obbligo di prestare immediata assistenza.
Secondo l’articolo 98 UNCLOS, ogni Stato deve infatti esigere che il comandante di una nave che batta la sua bandiera “presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo“.
Anche la Convezione SOLAS (Capitolo 5, Regolamento 33) ribadisce che il comandante “debba procedere quanto più velocemente possibile in soccorso” [is bound to proceed with all speed to their assistance] di persone in pericolo.
L’articolo 1158 del codice della navigazione italiano prevede poi pene fino a otto anni di reclusione se l’omesso soccorso sia causa di morte.
Gli Stati costieri hanno inoltre l’obbligo di organizzare e mantenere un “servizio adeguato ed efficace di ricerca e soccorso per tutelare la sicurezza marittima” [articolo 92.2 UNCLOS] e l’autorità marittima che abbia notizia di una nave in pericolo ovvero di un naufragio “deve immediatamente provvedere al soccorso” o, se in qualche modo impossibilitata, deve “darne avviso ad altre autorità che possano utilmente intervenire” [articolo 69 del codice della navigazione italiano].
Una volta soccorsi, i naufraghi devono essere fatti sbarcare prontamente [“the desembarcation of the persons rescued is carried out swiftly“] in un luogo sicuro [“delivery of survivors to a place of safety”] per ricevere un equo trattamento una volta a terra, come specificato nelle “Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare” e in una successiva Circolare esplicativa dell’IMO del 2009.
Ma cosa si intende per “luogo sicuro”?
Lo chiarisce l’IMO: una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse, dove la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata, le necessità umane primarie (come cibo, alloggio e cure mediche) possono essere soddisfatte e dal quale può essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella loro prossima destinazione o in quella finale.
Quindi sicuramente non la Libia, ancora dilaniata da guerre intestine, e nemmeno la Tunisia, ancora considerata non del tutto “sicura” dato che manca una legislazione interna sul diritto d’asilo e scarse sono le garanzie di tutela legale per i rifugiati.
Quindi è l’Italia l’unico Stato costiero ad avere “luoghi sicuri” dove fare sbarcare tutto il Nordafrica? “Perché sempre in Italia”, si chiedono in molti?
Perché, si potrebbe rispondere, Libia e Tunisia non offrono garanzie umanitarie sufficienti, perché Malta tenta di fare tutto quanto possibile per defilarsi e perché cosi prevedono gli accordi della missione Triton, lanciata nel 2014 in sostituzione di “Mare Nostrum” e tuttora operativa.
Triton è un’operazione europea di pattugliamento e di “search and rescue” (SAR) nel Mediterraneo, coordinata dalla nostra Guardia Costiera, che prevede che sia le imbarcazioni intercettate nelle nostre acque territoriali sia quelle intercettate in alto mare vengano, previa autorizzazione, ricondotte in Italia per soccorso e identificazione delle persone salvate e custodia di quelle arrestate.
Cosi recita infatti l’Allegato 3 al Piano Operativo Triton (22 Ottobre 2014):
The participating units are authorized by Italy to disembark in its territory all persons intercepted and apprehended in its territorial sea as well as in the entire operational area beyond its territorial sea.
It shall be ensured that coordination and cooperation with the relevant SAR authorities is carried out in such a way that the persons rescued can be delivered to a place of safety in Italy.
Il Piano Operativo prescrive anche una collaborazione tra Italia e Stati Membri per identificare anche altri “luoghi sicuri” oltre ai porti italiani anche se, in caso la questione vada per le lunghe e si ecceda il “ragionevole”, l’Italia è sempre il posto di elezione per lo sbarco.
“Italy and the participating Member States shall cooperate with the responsible RCC and the MOl – Central Directorate for Immigration and Border Police- National Coordination Centre-, to identify a place of safety and, when it will be designated such a place of safety, they shall ensure that disembarkation of the rescued persons is carried out rapidly and effectively.
If it is not possible to arrange for the participating unit to be released of its obligation to render assistance as soon as reasonably practicable, taking into account the safety of the rescued persons and that of the participating unit itself, it shall be authorized to disembark the rescued persons in Italy“.
In nessun caso si prevede lo sbarco in Paesi Terzi, ovvero in paesi non Stati Membri dell’Unione.
“However, no person rescued in the operational area or outside the operational area within a SAR incident, by a participating maritime asset, will be handed over to Third Country Authorities or disembarked in the territory of that Third Country”
E’ previsto, inoltre, che anche Malta possa essere coinvolta nelle operazioni di sbarco ma sappiamo che l’isola tende a fare spesso (se non sempre) orecchie da mercante, rifiutando di ricevere imbarcazioni cariche di migranti.
“In case of a search and rescue incident in the territorial waters and contiguous zone of Malta or in order to assure the safeguard of the life of people in distress, it is possible the disembarkation to take place in Malta” [Allegato 3 al Piano Operativo Triton].
Anche le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare prevedrebbero (all’articolo 2.5) che “la responsabilità di fornire un luogo sicuro o di assicurare che tale luogo venga fornito [ricada] sul Governo responsabile per la regione SAR in cui sono stati recuperati i sopravvissuti“.
Quindi, in caso il salvataggio dovesse avvenire nella zona SAR di competenza di Malta, Malta potrebbe ricevere la richiesta di fornire i suoi porti per soccorso e identificazione delle persone.
Tuttavia, Malta non ha mai aderito alle Linee guida del 2004, né ha mai ratificato i recenti emendamenti alle Convenzioni SAR e SOLAS, e si ritiene quindi libera da ogni obbligo.
È possibile, in via teorica, rifiutare gli sbarchi?
Lo Stato costiero, oltre al diritto di adottare tutte le “misure necessarie per impedire nel suo mare territoriale ogni passaggio che non sia inoffensivo“, ha anche il diritto di “adottare le misure necessarie per prevenire ogni violazione delle condizioni alle quali è subordinata l’ammissione di (..) navi nelle acque interne o (..) scali“.
[articolo 25, Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del mare – UNCLOS]
Tra i diritti che lo Stato costiero può quindi esercitare, vi è sicuramente il rifiuto dell’ingresso nei propri porti a navi con a bordo soggetti irregolari, in quanto tale ingresso violerebbe “una delle condizioni che subordinano l’ammissione”, ovvero la normativa nazionale in materia d’immigrazione clandestina.
Lo Stato può inoltre rifiutare il passaggio “non inoffensivo” di navi nelle proprie acque territoriali.
Si definisce “passaggio inoffensivo” il passaggio che “non arreca pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero“.
Tra i fattori che potrebbero far classificare il passaggio come pregiudizievole (e quindi non inoffensivo, ovvero vietabile) c’è proprio “il carico o lo scarico di (..) persone in violazione delle leggi e dei regolamenti (..) sanitari o di immigrazione vigenti nello Stato costiero“.
[articolo 19, Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del mare – UNCLOS]
Con un distinguo: l’esistenza del “principio di non respingimento“, previsto dalla Convenzione di Ginevra.
Il principio di non respingimento, come sottolineato anche dall’ Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), è il necessario complemento del diritto di cercare asilo garantito dall’art. 14 della “Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo”: sulla base di tale principio, se uno Stato respinge dei rifugiati (che nel nostro caso arriverebbero prevalentemente via mare) rimandandoli in Stati Terzi che non offrono sufficienti garanzie riguardo alla loro incolumità e sicurezza, senza nemmeno avere verificato che non vi fossero tra di essi richiedenti asilo, rischia seriamente di essere sottoposto a sanzioni internazionali.
SAR - International Convention on maritime search and rescue - Amburgo 27apr1979
SOLAS - International Convention for the safety of life at sea - 2004
UNCLOS - United Nations Convention on the Law of the Sea - Montego Bay 10dic1982
LInee Guida MSC 167(78) (A SEGUITO DI EMENDAMENTO SOLAS 2004)